Nel discorso di
Ratisbona nel 2006 Benedetto XVI denunciò il lato violento della religione
musulmana. New York Times e Repubblica lo accusarono: così spezza il dialogo Renato
Farina - Gio, 15/01/2015 –
I l 12 settembre
del 2006, Benedetto XVI tenne una lezione all'università tedesca di Regensburg.
Il tema era sul diritto delle singole coscienze di aderire o non aderire
liberamente a una fede. Il Papa osservò che Maometto, dopo avere in gioventù
ammesso la facoltà di scelta, una volta raggiunto il potere, impugnò la spada
per convertire il prossimo.
Non si fermò lì,
Ratzinger. Perfettamente cosciente del peso delle sue parole, spiegò dove stava
l'errore, e propose un «dialogo sincero» per estirpare questa radice di
violenza, presente anche in una certa visione del Dio cristiano e
nell'ideologia atea, usando la ragione e vedendola come riflesso
dell'Onnipotente. Questa seconda parte del discorso fu trascurata. E scandalo
fu. Boom!
Alt, però.
Attenzione. Benedetto XVI, prima di essere raffigurato come un fantoccio e
incendiato dai musulmani indiani e da quelli palestinesi, fu impiccato in
Occidente. Cominciò il New York Times a gettare in pasto il mite tedesco alle
folle feroci delle moschee. Seguì, dopo aver fiutato l'aria, Repubblica . In
contemporanea con gli anatemi degli ulema e degli imam oltre che dei muftì,
arrivò quello di Eugenio Scalfari. Ci fu l'assassinio di una suora gentile e
votata al servizio degli orfani in Somalia. Chiese e canoniche furono assaltate
in Oriente e in Africa.
I signori del
pensiero e della matita, gli uomini della satira e delle alte riflessioni,
affibbiarono la responsabilità di questi linciaggi e tumulti al Papa. Non si
sognarono neanche per un istante di ammettere che proprio le reazioni criminali
al libero pensiero del Pontefice confermavano quanto avesse ragione il Vescovo
di Roma a denunciare un legame piuttosto nefasto tra la fede islamica e la
spada. Si disse: Ratzinger se l'è cercata. Non solo, il pensiero tradotto in
italiano corrente era questo: Ratzinger causa con questi suoi discorsi un sacco
di guai a noi occidentali di sinistra che vogliamo vivere in pace con
quest'islam così moderato e gentile.
Pochissimi in
Europa e in America difesero il diritto del Papa a esprimersi liberamente. In
Italia furono Il Giornale , Libero e Il Foglio . La sua libertà di pensiero in
Europa fu calpestata. Persino in campo cattolico, il responsabile per il
dialogo con l'islam della Compagnia di Gesù, padre Tom Michel, censurò il Papa:
«Penso che il Papa abbia seminato mancanza di rispetto nei confronti dei
musulmani. Noi cristiani dobbiamo ai musulmani delle scuse». La suora era già
stata uccisa, il fantoccio del Papa bruciato, le fatwa di condanna a morte
verso Ratzinger pronunciate. Ma questi insistono. Colpa del Papa. Ritiri, si
scusi.
Intervenne in
difesa di Benedetto chi non te lo aspetti. Salman Rushdie, intervistato dallo
Specchio , si scandalizzò non per le frasi del Papa, ma per le repliche del
famoso quotidiano liberal. «Sono rimasto scioccato da un editoriale del New
York Times , che chiedeva al Papa di scusarsi perché durante il discorso di
Ratisbona aveva citato un personaggio del XV secolo, con cui tra l'altro non
era d'accordo. Perché pretendere le scuse, per un testo bizantino? Non ricordo
l'ultima volta che è accaduto un fatto simile, nella storia. La Chiesa ci ha
messo 400 anni per scusarsi con Galileo, ma il mondo ha preteso che si scusasse
con l'islam in 8 minuti».
Dinanzi a questo
coro osceno contro il Papa, con un monito senza precedenti, fu il portavoce
della Commissione europea Johannes Laitenberger a frenare l'assalto di satira e
intellighenzia tutta contro la libertà di parola che dovrebbe essere
riconosciuta persino al Vescovo di Roma: «Le reazioni sproporzionate, che
corrispondono al rifiuto della libertà di espressione, sono inaccettabili... La
libertà d'espressione è una pietra angolare dell'ordine europeo... ». Il fatto
è che chi praticò quel «rifiuto della libertà di espressione», e scartò la
«pietra angolare» dell'Europa, sono quelli che oggi scrivono: a Parigi è nata
l'Europa. E dicendo Europa pensano a se stessi, a quel microcosmo di sinistra
che santifica e demonizza con decisioni da salotto ciò che è bene e ciò che è
male. Lo stesso che oggi proclama Je suis Charlie , e che allora incoraggiò il
rogo di Papa Charlie Ratzinger. La medesima sinistra chic e choc che non ha
nessuna voglia di ammettere di aver sbagliato almeno un po'.
In realtà in quel
2006, incolpando il Pontefice romano delle reazioni degli islamici, si regalò un
alibi a qualsiasi futuro gesto criminale di reazione. Adesso è cambiato il
vento. Ezio Mauro, direttore di Repubblica , si fa le foto in Boulevard
Voltaire con il primo ministro socialista Manuel Valls, che gli parla
addirittura in italiano, parbleu . Si mescola con i promotori della
manifestazione di Parigi, e scrive Je suis Charlie , e ci crede senz'altro. Ma
nel 2006 avrebbe meritato una maglietta onoraria con scritto: Je suis le Muftì
.
Oggi piacerebbe
sentire, da tutti coloro che intimarono a Benedetto XVI di tacere e di chiedere
scusa, una paroletta di resipiscenza. Macché. Piccola panoramica della
vigliaccheria salva-vita. Il New York Times fulminò come «tragiche e
pericolose» le parole del Papa. «C'è già abbastanza odio religioso nel mondo.
Benedetto XVI ha insultato i musulmani». Repubblica usò l'editoriale di prima
pagina per sistemarci sopra come su un rogo Benedetto. Marco Politi, oggi firma
di punta de Il Fatto (che oggi diffonde Charlie Hebdo , ottimo marketing), lo
accusò di aver fatto precipitare «la Santa Sede in una vera e propria
Waterloo». Sostenne Politi: è stato «molto più di un incidente di
comunicazione». L'«infelice citazione di Maometto» che ha suscitato l'«amara
indignazione dei musulmani moderati europei ha portato violentemente alla luce
lo strappo compiuto da Ratzinger».
Come si vede: la
reazione violenta è stata provocata da uno strappo violento. Chi la fa
l'aspetti. Se l'è cercata. Il Papa tedesco ha dunque una responsabilità
gravissima: «ha tragicamente spezzato» il dialogo con l'islam, «ha cancellato
il riferimento ai rapporti fraterni con il monoteismo islamico». (A questo
proposito Politi sostiene che il Papa ha ammesso di aver avuto torto, e infatti
«si è scusato». Bugia. Non ha mai chiesto scusa. Ha espresso «rammarico» per
non essere stato compreso. La vulgata dice che non fu ben consigliato, che si
trattò di un errore da professor Ratzinger, scapestrato e temerario. So invece
per certo che Benedetto XVI rispose no a chi gli chiese di espungere dal
discorso le severe parole di Manuele II Paleologo su Maometto che ha portato al
mondo «cose cattive e disumane» come la guerra santa. Riteneva falso un dialogo
con l'islam che saltasse la questione dirimente della libertà).
Eugenio Scalfari
interviene e, con sicurezza infallibile, dice: «Anche il Papa è fallibile. Ha
sbagliato dal punto di vista della sua Chiesa. Ha fatto un involontario passo
avanti sulla via dello scontro religioso».
Insomma: dicendo
che l'islam si deve emendare dalla violenza, è colpevole della violenza che
subisce. Perfetto. Scalfari va oltre e arriva alla scomunica: «Ha incrinato
l'oggettività della trascendenza. Il Papa romano arriva alla soglia della
miscredenza». Qui però lo lasciamo ai dialoghi con il successore Papa Bergoglio
che lo capisce, io no.
La libertà
d'espressione, il diritto a parlare senza dover pagare un prezzo di minacce,
senza dover sopportare il ricatto di essere qualificati come provocatori. Che
belle cose. Je suis Charlie , come no?
«Sono onorato di
essere nella città senza tempo del Cairo e di essere ospite di due importanti
istituzioni. Per oltre un millennio Al-Azhar è stato un faro per la cultura
araba e da più di un secolo l’università del Cairo è stata la fonte dello
sviluppo dell’Egitto. Voi, insieme, rappresentate l’armonia tra progresso e
tradizione e sono grato della vostra ospitalità, come dell’accoglienza del
popolo egiziano. Sono fiero di essere il portavoce della buona volontà del
popolo americano e di portare un saluto di pace dalle comunità musulmane del
mio paese: assalaamu alaykum.
Il nostro
incontro si svolge in un momento di tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani
di tutto il mondo, una tensione che affonda le proprie radici in ragioni
storiche che vanno al di là del dibattito politico attuale.
Le relazioni tra
l’Islam e l’Occidente sono fatte di coesistenza e cooperazione, ma anche di
conflitto e di guerre di religione; in tempi più recenti la tensione è stata
alimentata da un colonialismo che negava i diritti e le opportunità di molti
musulmani e da una Guerra Fredda durante la quale i paesi a maggioranza
musulmana sono stati spesso trattati come spettatori privi del diritto di
parola, senza rispetto per le loro aspirazioni.
La
modernizzazione e la globalizzazione, inoltre, hanno portato cambiamenti così
radicali da spingere molti musulmani a vedere nell’Occidente un’entità ostile
alle tradizioni dell’Islam. Queste tensioni sono state sfruttate da violenti
estremisti per strumentalizzare un piccolo, ma potente numero di musulmani.
Gli attacchi
dell’11 settembre e i successivi tentativi di violenza contro la popolazione
civile ha indotto alcuni Paesi a vedere nell’Islam un nemico irriducibile non
solo per gli Usa e le altre nazioni occidentali, ma addirittura per i diritti
umani.
Tutto ciò ha
alimentato la paura e la sfiducia. Fino a che il nostro rapporto verrà definito
solamente in base alle nostre differenze renderemo sempre più potente chi
semina odio, invece di pace, chi ricerca i conflitti, invece della cooperazione
che è necessaria perché tutti i popoli possano avere giustizia e prosperità.
Per questo motivo
deve essere spezzata la catena di sospetti e inimicizia. Sono qui per cercare
d’inaugurare una nuova epoca nei rapporti tra Stati Uniti e i musulmani in
tutto il mondo, un rapporto basato sul mutuo rispetto e su un interesse
reciproco, fondato – soprattutto – sull’idea che Usa e Islam non siano
incompatibili e non debbano per forza essere in competizione. Si sovrappongono,
invece, condividendo principi comuni di giustizia, progresso, tolleranza e
dignità per tutti gli esseri umani.
Cerco una nuova
base per il nostro rapporto anche se so che il cambiamento non potrà avvenire
improvvisamente, nessun discorso – da solo – può sradicare anni di sfiducia né
posso rispondere oggi a tutte le complesse questioni che ci hanno portati fino
a qui.
Tuttavia sono
convinto che per andare avanti sia necessario parlare apertamente di ciò che ci
sta a cuore e che, troppo spesso, viene nascosto e taciuto. Ci dovranno essere
sforzi da parte di entrambi, per ascoltare e per imparare dall’altro, per
rispettarci a vicenda e, infine, per cercare un terreno comune su cui basare il
nostro rapporto.
Come il sacro
Corano ci esorta, “Sii consapevole di Dio e di’ sempre la verità”. Questo è
proprio quel che tenterò: fare del mio meglio nel dire la verità, con l’umiltà
che è necessaria per affrontare la sfida che ci attende, fermo nella
convinzione che gli interessi che ci uniscono in quanto esseri umani siano
molto più potenti delle forze che ci dividono.
Questa
convinzione è basata, in parte, sulla mia esperienza personale.
Sono cristiano,
ma mio padre proveniva da una famiglia keniota che contava generazioni di
musulmani e, da ragazzo, ho passato diversi anni in Indonesia e ho ascoltato la
chiamata dell’adhan [la chiamata alla preghiera effettuata tradizionalmente dal
muezzin sul minareto, n.d.T.] all’alba e al tramonto. Quando, da giovane, ho
lavorato nelle comunità di Chicago, ho conosciuto molte persone che avevano
trovato dignità e pace nella fede musulmana.
Durante gli studi
di storia ho compreso il debito che la cultura ha nei confronti dell’Islam. E’
stato proprio l’Islam, in luoghi come l’università di Al-Azhar, a far avanzare
la luce della cultura attraverso i secoli, aprendo la strada per il
Rinascimento e l’Illuminismo europei. L’innovazione all’interno delle comunità
musulmane ha permesso lo sviluppo dell’algebra, l’invenzione della bussola
magnetica e di altri strumenti di navigazione, le tecniche di scrittura e
stampa, la comprensione dei motivi e dei mezzi di diffusione delle malattie e
la scoperta delle cure. La cultura islamica ci ha donato archi maestosi e
guglie svettanti, poesia immortale e musica preziosa, la grafia elegante e
luoghi pacifici e magnifici.
Lungo il corso
della storia, infine, l’Islam ha dimostrato, con le parole e con i fatti, la
possibilità di vivere attraverso la tolleranza religiosa e l’eguaglianza
razziale. Sono anche consapevole che l’Islam ha fatto parte, da sempre, della
storia degli Stati Uniti. Il Marocco è stata la prima Nazione a riconoscere il
mio paese e, firmando il Trattato di Tripoli del 1796, il nostro secondo
Presidente John Adams scrisse: “Gli Stati Uniti non hanno alcun motivo di
inimicizia per le leggi, la religione o la tranquillità dei musulmani”.
A partire dalla
fondazione, i musulmani americani hanno arricchito gli Stati Uniti, hanno
combattuto le nostre guerre, hanno servito il nostro Governo, si sono erti a
difesa dei diritti civili, hanno fondato imprese, insegnato nelle nostre
università e ottenuto risultati eccezionali nello sport, sono stati insigniti
del Premio Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e acceso la torcia
olimpica.
Quando,
recentemente, il primo americano di religione musulmana è stato eletto membro
del Congresso, ha giurato di servire la nostra Costituzione usando il Sacro
Corano che uno dei nostri Padri Fondatori – Thomas Jefferson – teneva nella sua
biblioteca personale. Ho conosciuto l’Islam in tre diversi continenti prima di
visitare la regione dove è stato rivelato e quelle esperienze sostengono la mia
convinzione che un rapporto tra America e Islam debba essere basato su ciò che
l’Islam è, non su ciò che non è.
Considero dunque
parte della mia responsabilità come Presidente degli Stati Uniti lottare contro
gli stereotipi negativi sull’Islam, ovunque essi appaiano. Lo stesso principio
deve essere usato dai musulmani per valutare la propria percezione degli Stati
Uniti. I musulmani non possono essere descritti da un rozzo stereotipo, allo
stesso modo la natura e l’identità degli Stati Uniti non corrispondono alla
grezza immagine di un impero egoista.
Gli Stati Uniti
sono stati una delle più importanti culle del progresso che il mondo abbia mai
conosciuto. Siamo nati grazie alla rivoluzione contro un impero, siamo stati
fondati in nome dell’ideale che tutti gli uomini siano stati creati uguali e
abbiamo sparso il nostro sangue e lottato per secoli al fine di dare
significato a queste parole, all’interno dei nostri confini come nel resto del
mondo.
Siamo stati
formati da tutte le culture, siamo giunti da ogni angolo della terra e ci siamo
dedicati a un semplice ideale: ex pluribus unum: “Da molti, uno solo”. Sono
state spese molte parole sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein
Obama potesse essere eletto Presidente, ma la mia storia personale non è unica
in questo senso. Il sogno di una possibilità per tutti non diventa realtà per
ciascuno in America, ma questa promessa esiste per tutti quelli che arrivano
sulle nostre rive e ciò comprende i quasi 7 milioni di americani musulmani che
oggi, nel nostro paese, godono di redditi e livelli di istruzione al di sopra
della media.
Negli Stati Uniti
la libertà è inscindibile dalla libertà di professare la propria religione,
questo è il motivo della presenza di una moschea in ogni Stato dell’Unione e di
più di 1200 moschee all’interno dei nostri confini. Questa è, inoltre, la
ragione per cui il governo degli Stati Uniti ha combattuto in tribunale per il
diritto delle donne e delle ragazze di indossare lo hijab e per punire che
negava questo diritto. Non ci sia dunque alcun dubbio: l’Islam è parte degli
Stati Uniti e io credo che l’America abbia, dentro di sé, la coscienza che
tutti noi, senza distinzione di religione o razza, condividiamo le stesse
aspirazioni: quella di vivere sicuri e in pace, di avere un’istruzione e di
poter lavorare con dignità, di amare la nostra famiglia, la nostra comunità e
il nostro Dio. Questo è ciò che condividiamo, questa è la speranza per tutta
l’umanità.
Il riconoscimento
della nostra comune umanità è certamente solo il punto di partenza della nostra
missione, le parole da sole non possono appagare i bisogni delle nostre genti, ma
queste necessità potranno essere soddisfatte solo se agiremo coraggiosamente
negli anni a venire e se capiremo che le sfide che ci si presenteranno sono
sfide comuni e che un fallimento danneggerebbe tutti noi. Abbiamo imparato
dall’esperienza di questi ultimi mesi che quando un sistema finanziario di
indebolisce in un Paese, la prosperità di tutti è in pericolo. Quando una nuova
influenza infetta un essere umano, tutti siamo a rischio. Quando una Nazione
cerca di ottenere gli armamenti nucleari, il rischio di un attacco cresce per
ogni Paese. Quando estremisti violenti agiscono in una zona di montagna, ci
sono persone in pericolo dall’altra parte dell’oceano. Infine, quando vengono
uccise persone innocenti in Bosnia e Darfur, si macchia la nostra coscienza
collettiva.
Questo è il vero
significato di condividere il mondo nel 21° secolo e questa è la responsabilità
che ciascuno di noi ha verso gli altri esseri umani. E’ certamente una
responsabilità difficile da accettare, anche perché la storia umana è un
susseguirsi di Nazioni e tribù in lotta tra di loro per il perseguimento dei
propri interessi. E tuttavia, in questa nuova epoca, tali abitudini sono
dannose per ciascuno.
Ogni ordine
mondiale che veda una Nazione, o un gruppo di persone, al di sopra degli altri
è inevitabilmente destinato al fallimento, considerando il grado di
interdipendenza tra di noi; questo significa che quando riflettiamo sul passato
non dobbiamo diventarne prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati
con la cooperazione, il progresso deve essere condiviso. Ciò non vuol dire che
sia necessario ignorare le fonti della tensione, anzi, suggerisce esattamente
il contrario: dobbiamo affrontare i contrasti in modo diretto. In quest’ottica
permettetemi di parlare il più chiaramente e semplicemente possibile a
proposito di alcune delle questioni che – credo – dobbiamo affrontare insieme.
La prima
problematica che dev’essere fronteggiata è quella dell’estremismo violento in
ogni sua forma. Ad Ankara ho affermato con chiarezza che gli Stati Uniti non
sono, né saranno mai, in guerra con l’Islam. La nostra opposizione sarà sempre
rivolta, incessantemente, contro gli estremisti violenti che costituiscono un
grave pericolo per la nostra sicurezza e questo perché noi rifiutiamo ciò che
viene rigettato da tutte le fedi del mondi: l’uccisione di uomini, donne e
bambini innocenti. Ed è il mio primo dovere come Presidente degli Stati Uniti
quello di proteggere il popolo americano.
La situazione in
Afghanistan dimostra la correttezza degli obiettivi americani e il bisogno di
lavorare insieme verso di essi. Più di sette anni fa, gli Stati Uniti
iniziarono a perseguire al Qaeda e i Talebani ricevendo un vasto supporto dalla
comunità internazionale, non ci siamo impegnati in questa lotta per nostra
volontà, ma per necessità.
Sono consapevole
dell’esistenza di chi mette in dubbio, o giustifica, gli eventi dell’11
settembre, ma vorrei che fosse chiaro: al Qaeda uccise quasi 3000 persone quel
giorno. Le vittime erano uomini, donne e bambini innocenti, americani e di
altre nazionalità, che non avevano fatto nulla a nessuno e tuttavia al Qaeda
scelse di assassinare queste persone senza pietà, di rivendicare l’attacco e
ancora oggi dichiara la propria volontà di uccidere su vastissima scala.
Al Qaeda ha
affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere la propria influenza,
queste non sono opinioni oggetto di discussione: sono fatti che devono essere
affrontati. Non ingannatevi: non vogliamo tenere le nostre truppe in
Afghanistan, non vogliamo avere là delle basi militari permanenti e per
l’America è un’agonia perdere i nostri giovani uomini e le nostre giovani
donne. Continuare questo conflitto ha un costo politico ed economico difficile
da sostenere e saremmo felici di poter far rientrare a casa ognuno dei nostri
soldati, se fossimo sicuri che in Afghanistan e Pakistan non vi siano
estremisti violenti determinati a uccidere quanti più americani possibile. La
situazione, però, non è questa.
Questa è la
ragione della nostra alleanza con 46 Paesi e, nonostante i costi, l’impegno dell’America
non s’indebolirà. Anzi. Nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti,
che hanno ucciso in molte Nazioni, hanno ucciso persone di fedi diverse e – più
di ogni altre – persone di fede musulmana.
Le loro azioni
sono inconciliabili con i diritti degli essere umani, il progresso delle
Nazioni e con l’Islam. Il sacro Corano insegna che uccidere un innocente
equivale a uccidere tutta l’umanità, mentre salvare un innocente è come salvare
l’umanità intera. La fede di più di un miliardo di persone è enormemente più
grande dell’odio cieco di pochi.
L’Islam non è
parte del problema nella lotta all’estremismo violento, ma una componente
importante nella promozione della pace. Siamo consapevoli che il solo
intervento militare non è sufficiente a risolvere i problemi in Afghanistan e
Pakistan, per questo stiamo progettando di investire 1,5 miliardi di dollari
ogni anno, per 5 anni, per lavorare in collaborazione con i pakistani alla
costruzione di scuole e ospedali, strade e imprese, oltre a investire centinaia
di migliaia di dollari per aiutare chi si è dovuto spostare dai propri luoghi
d’origine.
Per questo motivo
finanziamo con 2,8 miliardi di dollari i progetti degli afghani per lo sviluppo
della propria economia e per la fornitura dei servizi essenziali alla vita.
Permettetemi anche di affrontare la questione dell’Iraq. Al contrario del
conflitto in Afghanistan, abbiamo scelto di iniziare la guerra in Iraq e questa
scelta ha causato forti contrasti nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se
sono convinto che, per il popolo iracheno, sia positivo il fatto di essersi
liberato della tirannia di Saddam Hussein, credo anche fermamente che gli
eventi in Iraq abbiano ricordato agli Stati Uniti la necessità di impegnarsi
diplomaticamente e di costruire un consenso internazionale, quando possibile,
al fine di risolvere i contrasti.
Possiamo
ricordare le parole di Thomas Jefferson che disse: “Spero che la nostra
saggezza cresca con il nostro potere e ci insegni che meno useremo questo
potere maggiore sarà la nostra grandezza”. Oggi gli Stati Uniti hanno una
doppia responsabilità: quella di aiutare l’Iraq a plasmare un futuro migliore e
quella di lasciare l’Iraq agli iracheni. Ho detto chiaramente alla popolazione
dell’Iraq che non vogliamo istituire nessuna base militare, che non avanziamo
alcuna pretesa sui loro territori e sulle loro risorse.
La sovranità
dell’Iraq appartiene all’Iraq ed è per questo che ho ordinato il rientro delle
unità da combattimento entro agosto. Onoreremo i nostri impegni con il governo
iracheno democraticamente eletto di rimuovere le unità di combattimento dalle
città entro luglio e di far rientrare tutte le nostre truppe dall’Iraq entro il
2012. Collaboreremo all’addestramento delle forze di sicurezza del Paese e allo
sviluppo della sua economia, ma sosterremo un Iraq sicuro e unito in veste di
partner, non ci comporteremo come padroni.
Infine, l’America
non potrà mai tollerare la violenza degli estremisti e, allo stesso modo, non
dovremmo mai modificare i nostri principi. L’11 settembre è stato un trauma
terribile per il nostro Paese e ha comprensibilmente causato rabbia e paura, ma
in alcuni casi ci ha condotti ad agire in violazione dei nostri ideali. Ci
stiamo concretamente impegnando a cambiare corso, ho proibito, senza possibilità
di eccezione, l’uso della tortura da parte degli Stati Uniti e ho ordinato la
chiusura della prigione di Guantanamo entro il prossimo anno. In questo modo
l’America si potrà difendere, rispettando però la sovranità delle Nazioni e la
guida della legge. Agiremo in collaborazione con le comunità musulmane che,
come noi, vengono minacciate e prima gli estremisti si troveranno isolati e
sgraditi all’interno delle comunità musulmane, prima tutti noi potremo essere
più sicuri. La seconda maggiore fonte di tensione internazionale che vorrei
discutere con voi è la situazione tra Israele, i palestinesi e il mondo arabo.
I legami tra
Stati Uniti e Israele sono ben noti, questo legame non si può spezzare perché è
basato su vincoli storici e culturali e sul riconoscimento che l’aspirazione
per una patria ebraica affondi le proprie radici in un passato tragico che non
può essere negato. Il popolo ebreo ha subito persecuzioni nel corso dei secoli
e in tutto il mondo e, in Europa, l’anti-semitismo è culminato in un Olocausto
senza precedenti.
Domani visiterò
Buchenwald, che faceva parte di un sistema di campi di concentramento dove gli
ebrei venivano schiavizzati, torturati, fucilati, uccisi con il gas per mano
del Terzo Reich. Furono uccisi 6 milioni di ebrei, più dell’attuale popolazione
di Israele e negare questo fatto è una posizione senza fondamento, ignorante e
odiosa. Minacciare di distruggere Israele o perpetuare i vili stereotipi sugli
ebrei è profondamente sbagliato, ha l’effetto di evocare nelle menti degli
israeliani il più doloroso dei ricordi e, allo stesso tempo, di impedire la
pace che le popolazioni di quella regione si meritano.
D’altro canto è
innegabile che la popolazione palestinese – sia musulmana che cristiana – abbia
sofferto nella ricerca di una patria. Per più di 60 anni hanno sopportato il
dolore dell’essere profughi, molti attendono nei campi per rifugiati della
Cisgiordania, di Gaza e delle regioni vicine la vita di pace e sicurezza che
non hanno mai potuto condurre.
I palestinesi devono
sopportare le grandi e piccole umiliazioni quotidiane causate dall’occupazione.
Sia dunque chiaro che la situazione della popolazione palestinese è
intollerabile, l’America non ignorerà le legittime aspirazioni dei palestinesi
di dignità, opportunità future e di un proprio Stato. Per decenni siamo rimasti
in una situazione di stallo: due popoli con aspirazioni legittime, entrambi con
una storia dolorosa alle spalle che rende difficile il compromesso. E’ facile
puntare il dito – i palestinesi denunciano gli spostamenti di popolazione
causati dalla fondazione dello stato di Israele e gli Israeliani lamentano gli
attacchi e la costante ostilità che hanno dovuto affrontare nel corso della
loro storia sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Tuttavia, se
osserviamo il conflitto da uno solo dei due punti di vista non riusciremo a
riconoscere la verità: l’unica soluzione è che le aspirazioni di entrambi i
popoli vengano soddisfatte con la creazione di due Stati dove sia israeliani
che palestinesi possano vivere in pace e sicurezza.
Questa soluzione
è nell’interesse di Israele, dei palestinesi, degli Stati Uniti e del mondo
intero e per questa ragione ho intenzione di impegnarmi personalmente per
raggiungere quest’obiettivo, impiegando tutta la pazienza che sarà necessaria.
Gli impegni sottoscritti dalle due parti nella Road Map sono chiari e affinché
ci sia pace è tempo per loro di dimostrarsi all’altezza delle proprie
responsabilità. I palestinesi devono abbandonare ogni forma di violenza, perché
resistere attraverso la violenza e l’omicidio è sbagliato e non porta al
successo.
La popolazione
nera degli Stati Uniti ha, per secoli, sofferto per le frustate ricevute
durante la schiavitù e per l’umiliazione della segregazione, ma non è stata la
violenza a permettere di ottenere una piena uguaglianza di diritti. E’ stata,
al contrario, la pacifica e determinata insistenza sugli ideali centrali nella
fondazione degli Stati Uniti. La stessa cosa può essere detta per il Sudafrica
e il Sud Est asiatico, per l’Europa dell’Est e l’Indonesia. La semplice verità
è che la violenza è un vicolo cieco, non è potere né coraggio lanciare dei
razzi contro bambini che dormono, né far esplodere vecchie signore che
viaggiano su un autobus. Non è così che si rivendica l’autorità morale, in
questo modo – al contrario – la si abbandona.
Per i palestinesi
è giunto il momento di concentrarsi su ciò che possono costruire, l’Autorità
palestinese deve sviluppare una capacità di governo, creare istituzioni che
siano al servizio dei bisogni delle sua gente. Hamas ha il supporto di una
parte dei palestinesi, ma ha anche delle responsabilità: quella di contribuire
a soddisfare le aspirazioni dei palestinesi e quella di unificare il popolo.
Per questo deve abbandonare la violenza, riconoscere gli accordi stipulati in
passato e il diritto di Israele all’esistenza.
Israele deve,
allo stesso tempo, riconoscere che tanto quanto non può essere negato il suo
diritto all’esistenza, allo stesso modo non può essere negato quello della
Palestina. Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità dei continuati insediamenti
israeliani perché questo viola gli accordi precedenti e indebolisce gli sforzi
per raggiungere la pace. Questo è il momento di fermare gli insediamenti.
Israele deve dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità affinché i
palestinesi possano vivere, lavorare e sviluppare la propria società. La crisi
umanitaria di Gaza, infatti, devasta le famiglie palestinesi, ma è anche una
minaccia per la sicurezza di Israele, come lo è anche la mancanza di
possibilità per il futuro della popolazione che vive in Cisgiordania. Il
progresso nella vita quotidiana della popolazione palestinese deve essere
necessariamente una componente del cammino di pace e Israele deve agire
concretamente per permettere tutto questo.
Gli Stati Arabi,
infine, devono riconoscere che il Summit della Lega Araba è stato un inizio
importante, ma che non può costituire la fine delle loro responsabilità. Il
conflitto arabo-israeliano non dev’essere più utilizzato per distrarre le
popolazioni delle Nazioni arabe da altri problemi, dev’essere invece un motivo
di intervento a favore dello sviluppo delle istituzioni palestinesi che siano
in grado di gestire uno Stato, un motivo per riconoscere la legittimità dello
Stato di Israele e, ancora, per scegliere il progresso piuttosto di concentrarsi
sul passato.
Gli Stati Uniti
collaboreranno con chi vuole raggiungere la pace e renderanno pubbliche le
proposte e le discussione fatte con gli Israeliani, i palestinesi e i
rappresentanti degli Stati arabi. Non possiamo imporre la pace, ma – in privato
– molti musulmani riconoscono il fatto che Israele non scomparirà e, allo
stesso modo, molti israeliani riconoscono la necessità di uno Stato
palestinese. E’ giunto il momento di agire per raggiungere ciò che tutti sanno
essere vero. Sono state sparse troppe lacrime. Troppo sangue è stato versato.
La responsabilità
di lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno
vedere i loro figli crescere assieme è nostra; è nostro l’impegno per far
diventare la Terra Santa per tre grandi religioni il luogo di pace che dovrebbe
essere; è nostro anche il dovere di rendere per molto tempo Gerusalemme una
casa sicura per ebrei, cristiani e musulmani e un luogo in cui tutti i figli di
Abramo possano ritrovarsi pacificamente come nella storia di Isra, in cui Mosé,
Gesù e Maometto, che la pace sia con loro, erano uniti in preghiera.
La terza fonte di
tensione è il nostro comune interesse nel diritto e nella responsabilità delle
Nazioni in materia di armamenti nucleari. E’ una questione che è stata causa di
tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran, per molti anni l’Iran ha parzialmente
definito la propria identità in opposizione al mio Paese e certamente la storia
delle nostre relazioni è tumultuosa.
Durante gli anni
della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo nel rovesciamento del
governo iraniano democraticamente eletto e dalla Rivoluzione islamica in poi
l’Iran ha partecipato agli atti di violenza e ai rapimento subiti dalle truppe
e dai civili americani. Conosciamo bene la storia, ma invece di rimanere
intrappolato nel passato ho reso chiaro ai leader e al popolo dell’Iran che il
mio Paese è pronto ad andare avanti, la domanda ora non è contro cosa di
opponga l’Iran, ma quale futuro voglia costruire.
Sarà difficile
superare decenni di sfiducia, ma procederemo con coraggio, rettitudine e
decisione. Ci saranno molte questioni da discutere tra di noi e siamo decisi a
muoversi senza farci influenzare da preconcetti, ma piuttosto sulla base del
rispetto reciproco, anche se è chiaro a tutti che per quanto riguarda gli
armamenti nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo.
E’ qualcosa che
non riguarda solamente gli interessi degli Stati Uniti, ma è volto alla
prevenzione di una corsa agli armamenti nucleari nel Medio Oriente che potrebbe
portare la regione e il mondo intero lungo un sentiero pericoloso. Capisco le
ragioni di chi denuncia il fatto che alcuni Paesi posseggano armamenti nucleari
e altri no, non credo neanche che una sola Nazione dovrebbe avere il potere di
scegliere e selezionare chi può e chi non può possedere armi nucleari.
Per questa
ragione ho riaffermato fortemente l’impegno degli Stati Uniti per un mondo
senza armi atomiche e credo che ogni Nazione – incluso l’Iran – debba avere
accesso all’energia atomica da utilizzare per scopi pacifici, se sottoscrive
l’impegno del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare.
Quest’impegno è
il nucleo del Trattato stesso e ogni Paese è tenuto a rispettarlo, spero che
tutte le Nazione della regione possano condividere questo obiettivo. Il quarto
argomento di cui vi parlerò è la democrazia. Sono consapevole della
controversia degli ultimi anni a proposito della diffusione della democrazia e
del fatto che molte delle ragioni alla base di queste discussioni siano legate
alla guerra in Iraq.
Permettetemi di
essere chiaro su questo punto: nessun sistema di governo può o dovrebbe essere
imposto da una Nazione a un’altra. Tuttavia questo non diminuisce il mio
impegno a favore di governi che riflettano la volontà delle popolazioni, ogni
Nazione dà vita a questo principio in modo diverso, secondo le tradizioni del
proprio popolo e gli Stati Uniti non hanno la presunzione di sapere ciò che è
meglio per ognuno, come non presumiamo di poter scegliere il risultato di una
elezione pacifica.
Io ho, però,
un’incrollabile convinzione nel desiderio di tutti i popoli per alcune cose: la
possibilità di esprimersi liberamente e di avere la libertà di scegliere il
modo in cui essere governati; la fiducia nel governo della legge e in
un’amministrazione equa della giustizia; un governo trasparente e che non rubi
al proprio popolo; la libertà di vivere secondo le proprie scelte. Queste idee
non sono proprie solamente degli americani, sono diritti dell’uomo e sono
quello che sosterremo per tutti i popoli.
Quest’ultimo
punto è importante perché c’è chi difende la democrazia solamente quando non
detiene il potere e, una volta che l’ha ottenuto, sopprime i diritti degli
altri senza alcuna pietà. In ogni luogo e in ogni caso il governo del popolo e
per il popolo definisce una linea di condotta per tutti coloro che sono al
potere: il mantenimento del potere deve avvenire attraverso il consenso, non la
coercizione; l’interesse del popolo e il corretto funzionamento del processo
politico devono essere posti al di sopra del proprio partito. Le elezioni da
sole, senza queste componenti, non possono portare alla vera democrazia.
La quinta
problematica che dobbiamo affrontare insieme è quella della libertà religiosa.
L’Islam ha una fiera tradizione di tolleranza, come possiamo riscontrare nella
storia dell’Andalusia e di Cordoba durante il periodo dell’Inquisizione. Io
stesso l’ho potuto constatare durante la mia infanzia in Indonesia, dove devoti
cristiani potevano esercitare liberamente la propria fede in un Paese a
schiacciante maggioranza musulmana. E’ questo lo spirito di cui abbiamo bisogno
oggi; in ogni Paese le persone dovrebbero essere libere di scegliere e vivere
la propria fede con mente, cuore e anima.
La tolleranza è
essenziale per la prosperità delle religioni, ma viene minacciata in molti
modi. Alcuni musulmani hanno l’inquietante tendenza a misurare la propria fede attraverso
il rifiuto delle altre. La ricchezza della diversità religiosa deve invece
essere sostenuta, sia che si parli dei Maroniti del Libano che dei Copti in
Egitto; le divisioni devono essere ricucite anche tra i musulmani, dato che i
contrasti tra Sciiti e Sunniti hanno portato a tragiche violenze, in modo
particolare in Iraq.
La libertà
religiosa è centrale per la capacità delle persone di vivere insieme e dobbiamo
sempre cercare i mezzi per difenderla. Negli Stati Uniti, ad esempio, le leggi
sulle opere caritatevoli hanno reso più difficile per i musulmani l’adempimento
dei propri doveri religiosi, per questa ragione mi sono impegnato a lavorare
con i musulmani americani affinché possano rispettare lo zakat. Allo stesso
modo è importante, per i paesi occidentali, evitare di impedire ai cittadini
musulmani di praticare la propria religione come lo ritengono opportuno, ad
esempio decidendo quali vestiti possano essere indossati dalle donne musulmane;
non si può infatti fare distinzione tra le religioni sotto la falsa pretesa del
liberalismo.
La fede dovrebbe
invece avvicinarci, per questo motivo negli Stati Uniti stiamo creando progetti
che uniscano Cristiani, Musulmani ed Ebrei e per questo abbiamo accolto con
favore gli sforzi per il dialogo del re saudita Abdullah e la leadership della
Turchia nella Alleanza di Civiltà. In tutto il mondo possiamo trasformare il
dialogo in servizio interreligioso, affinché i ponti tra le persone permettano
di agire, che sia per la lotta alla malaria oppure per portare aiuti dopo un
disastro naturale.
La sesta
questione di cui voglio parlarvi sono i diritti delle donne. So che si sta
discutendo di questo e rifiuto l’idea – propria di alcuni occidentali – che una
donna che scelga di portare il velo sia in qualche modo meno uguale, credo
tuttavia che una donna a cui viene negata l’istruzione, venga privata anche
dell’uguaglianza, non è infatti un caso che i Paesi in cui le donne ricevono
una buona istruzione siano molto più spesso prosperi.
Vorrei che fosse
chiaro: le problematiche legate ai diritti delle donne non sono semplici da
affrontare per l’Islam. In Turchia e Pakistan, Bangladesh e Indonesia, abbiamo
l’elezione di una donna a capo di paesi a maggioranza musulmana, allo stesso
tempo la lotta per l’uguaglianza femminile continua in molti aspetti della vita
americana e di altri Paesi.
Le nostre figlie
possono dare un contributo alla società tanto quanto i nostri figli e la nostra
prosperità sarà più grande se permetteremo a tutta l’umanità – uomini e donne –
di raggiungere il suo pieno potenziale. Non credo che le donne debbano fare le
stesse scelte degli uomini per avere uguaglianza e rispetto le donne che
scelgono di vivere la loro vita nel solco dei loro ruoli tradizionali, ma
questa dovrebbe essere una scelta.
Per questa
ragione gli Stati Uniti collaboreranno qualunque Paese a maggioranza musulmana
che sostenga una maggiore alfabetizzazione femminile e che aiuti le giovani
donne a cercare impiego attraverso i micro-finanziamenti che aiutano le persone
a vivere i propri sogni.
Voglio infine
affrontare il tema dello sviluppo e le opportunità economiche. So che per molti
la globalizzazione ha in sé aspetti contraddittori. Internet e televisione
possono essere portatori di conoscenza e di informazioni, ma anche di una
sessualità offensiva e una violenza insensata. Il commercio può portare nuova
ricchezza e nuove opportunità, ma anche grandi sconvolgimenti e cambiamenti
all’interno delle comunità.
In tutte le
Nazioni, inclusa la mia, questo cambiamento suscita paura, timore che a causa
della modernità si perda il controllo delle nostre scelte economiche, della
nostra politica e – soprattutto – delle nostre identità, ciò che ci sta più a
cuore delle nostre comunità, famiglie e della nostra fede. Tuttavia sono anche
consapevole che il progresso umano non può essere negato, non ci deve essere
contraddizione tra sviluppo e tradizione.
Paesi come il
Giappone e la Corea del Sud hanno sviluppato la loro economie mantenendo
culture ben distinte, la stessa cosa è vera per il progresso di Paesi a
larghissima maggioranza musulmana, da Kuala Lumpur a Dubai. Nel passato le
comunità musulmane sono state all’avanguardia nei campi dell’innovazione e
dell’educazione. Tutto ciò è importante perché nessuna strategia di sviluppo
può essere basata solamente dalle ricchezze della terra, né può essere
sostenuta mentre le giovani generazioni sono tagliate fuori dal mondo del
lavoro. Molti stati del Golfo hanno goduto di grandi ricchezze grazie al
petrolio e alcuni stanno ora cominciando a progettare il proprio sviluppo in
campi più ampi, ma tutti noi dobbiamo riconoscere che l’educazione e
l’innovazione saranno la moneta corrente del 21° secolo e in troppi Paesi
musulmani queste aree ricevono pochissimi investimenti. Sto aumentando investimenti
di questo tipo nel mio paese e se nel passato gli Stati Uniti si sono
concentrati sul petrolio e sulla benzina, adesso ci muoviamo invece in
direzione di un più ampio impegno.
Per quanto
riguarda l’educazione, amplieremo i programmi di scambio e incrementeremo le
borse di studio, come quella che ha portato mio padre negli Stati Uniti, e
incoraggeremo più americani a studiare in comunità musulmane. Proporremo a
studenti musulmani promettenti di svolgere tirocini in America e investiremo
nell’e-learning per insegnanti e bambini in tutto il mondo, creeremo nuovi
network su internet, così che un adolescente in Kansas possa comunicare
istantaneamente con un coetaneo al Cairo. Nel campo dello sviluppo economico
creeremo nuovi gruppi di volontari degli affari che collaborino con la loro
controparte nei paesi a maggioranza musulmana e quest’anno terrò un summit
sull’imprenditoria per definire come si possano approfondire i legami tra i
leader del mondo degli affari, le fondazioni e gli imprenditori del sociale
negli Stati Uniti e nelle comunità musulmane in tutto il mondo.
Per la scienza e
la tecnologia lanceremo una nuova fondazione che sostenga lo sviluppo
tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana e che aiuti a trasferire le idee
sul mercato in modo da creare posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza
scientifica in Africa, nel Medio Oriente e nel Sud-Est Asiatico, nomineremo
nuovi inviati della scienza che collaborino nei programmi per lo sviluppo delle
nuove risorse energetiche, per la creazione di posti di lavoro “verdi”, per una
documentazione digitale e per la coltivazione di nuovi lture.
Annuncio oggi un
nuovo sforzo globale in collaborazione con l’Organizzazione della Conferenza
Islamica per sradicare la poliomielite e per allargare le cooperazioni con le
comunità musulmane per la promozione della salute del bambino e della madre.
Tutto ciò dev’essere portato avanti insieme e gli americani sono pronti a
unirsi ai cittadini e ai governi, alle organizzazioni di comunità, ai leader
religiosi e degli affari nelle comunità musulmani in tutto il mondo, per
aiutare i nostri popoli a perseguire l’obiettivo di una vita migliore.
Le questioni che
ho descritto non saranno di facile soluzione, ma abbiamo la responsabilità di
unirci in nome del mondo che cerchiamo, un mondo dove gli estremisti non
minaccino i nostri popoli e dove le truppe americane siano tornate a casa; un
mondo in cui israeliani e palestinesi vivano in sicurezza in un proprio Stato e
in cui l’energia nucleare venga utilizzata per scopi pacifici; un mondo in cui
i governi siano al servizio dei cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio
vengano rispettati.
Questi sono
interessi comuni, questo è il mondo che cerchiamo, ma possiamo ottenerlo solo
insieme. So che ci sono molti, sia musulmani che non, che si chiedono se sia
possibile forgiare questo nuovo inizio, alcuni vogliono rafforzare le divisioni
e opporsi al progresso. Altri sostengono che quest’idea non valga lo sforzo,
perché siamo condannati a essere in disaccordo e le culture sono destinate a
scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici della possibilità che
avvenga un reale cambiamento.
C’è così tanta
paura e così grande sfiducia e tuttavia se scegliamo di essere legati al
passato, non riusciremo mai ad andare avanti e voglio dirlo, in particolare,
alle giovani generazioni di tutti i paesi – voi, più di chiunque altro, avete
la capacità di cambiare questo mondo.
Tutti noi
condividiamo questo mondo solamente per un breve spazio di tempo, è più facile
far ricadere sugli altri le colpe, piuttosto che cercare dentro di noi; è più
semplice notare ciò che ci distingue, piuttosto che quel che condividiamo.
Dovremmo però scegliere il giusto cammino, non il sentiero più semplice. Al
cuore di ogni religione c’è una regola, quella che dice che ciò che dovremmo
trattare gli altri come vorremmo essere trattati da loro. Questa verità
trascende le Nazioni e i popoli, è una convinzione che non è nuova, né bianca,
né nera, né marrone; non è cristiana, musulmana o ebrea.
E’ una
convinzione, però, che vive nella culla delle civiltà e che batte ancora nei
cuori di miliardi di persone. E’ la fede nelle altre persone ed è quello che mi
ha portato qui oggi. Abbiamo il potere di plasmare il mondo che cerchiamo, ma
solamente se avremo il coraggio di partire da zero, ricordandoci di quel che è
stato scritto. Il sacro Corano ci dice: “Oh, umanità! Vi abbiamo creati uomini
e donne e vi abbiamo diviso in Nazioni e tribù affinché poteste conoscervi” Il
Talmud ci dice: “L’intera Torah ha lo scopo di promuovere la pace” La santa
Bibbia ci dice: “Siano benedetti i portatori di pace, perché saranno chiamati
figli di Dio” I popoli del mondo possono vivere insieme in pace, sappiamo che
quella è la visione di Dio.
Questo deve ora
essere il nostro impegno sulla Terra e che la benedizione di Dio sia con voi.
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