domenica 10 settembre 2017

QUADRUVIUM


           


6 Gennaio,1940 ore 16:45h 

I ricordi della mia esistenza nell’Aldilà, prima di questa mia ultima nascita in questo ridicolo mondo dei mortali, son piuttosto nebulosi e vaghi: Non mi ricordo più niente o, meglio, quasi niente.

Una delle impressioni di allora che sono ancora nitide nella mia mente e che scorre davanti ai miei occhi come in un film è molto significativa e mi accompagna ovunque io vada.

Sulla terra scrivevano allora il giorno 6 del mese di Gennaio dell’Anno del Signore 1940 dopo la nascita di Junior il Figlio del Boss che, con le sue stupidaggini e dicerie, ruppe i coglioni a tutta l’umanità.

Quel dì di pomeriggio, poco prima della mia nascita alle 16:45, ero seduto sotto un grande albero che si trova sopra una collina tutta verde e in fiore insieme ad altri tre puri spiriti e tranquilli e sereni, discutevamo sul mio prossimo ritorno e nascita tra i mortali.

Non avevo mica tanta voglia di ritornare sulla Terra tra quei casinisti di umani. Quegli esseri così pasticcioni e imperfetti mi erano stati da sempre sull’anima e, da sempre, non vedevo la ragione della loro esistenza.

Quelli là sulla Terra, mi erano talmente antipatici e speravo veramente che, come promesso, il Boss quanto prima terminasse quell’insulso esperimento e che tutto ritornasse come prima la loro creazione, senza tutta quella mandria infida di esseri immondi  a cui badare.

L’Universo in sé poi non aveva nessun senso pratico e spesso, mi domandavo che cazzo era venuto in mente al Boss per creare tutto quel casino.

A prescindere da tutto questo, ero anche del parere che un esperimento simile non sarebbe mai dovuto succedere ed ero pure convinto che neanche il Boss potesse fare tutto quello che è capace di fare, tanto per vedere che cazzo succede.

Ero sicuro che la creazione dell’Uomo non fosse altro che un bel buco nell’acqua, un’inutile cazzata senza senso.

Quando poi, vedendo che quel cretino di Adamo, invece di ammirare il Paradiso sulla Terra creato apposta per lui, si annoiava e non faceva che spararsi una sega dietro l’altra, il Boss gli tolse una costola e da quella gli modellò una compagna perché gli tenesse un po’ di compagnia, non seppi più cosa pensare.

Già prima della creazione di quei due, quando cioè il Boss ci rivelò le sue intenzioni di creare la luce, il cielo, l’universo, la Terra e di popolarla anche con una ridicola specie che si sarebbe creduta superiore a tutte le altre, cioè, l’homo sapiens, la cosa non mi era piaciuta. Non che non mi fidassi o mettessi in discussione le decisioni del Boss, non era questo il mio dilemma, piuttosto il mio problema era Lucifero e i suoi amici.

In linea di massima avrei potuto, anche se quello non faceva che massaggiarsi il pisellino dalla mattina alla sera, pure essere d’accordo con Adamo. Infatti, quando l’homo sapiens si annoia o si fa una sega o incomincia a rompere i coglioni al prossimo o a tarda età si beve una birra o due, no, non era questo il mio problema; fu il diabolico sorriso di Lucifero quando si accorse dell’apparizione di quella rompiballe di Eva che mi diede da pensare.

Il mio collega Lucifero non mi era mai piaciuto più di tanto.

L’arroganza di Lucifero era indescrivibile. Si riteneva e credeva ancora più onnipotente del Boss stesso e, da più parti, mi era anche stato riferito che Lucifero tramava per rimuovere il Boss dal trono.

Allora, come d'altronde oggi, non mi è ancora del tutto chiaro come cazzo Lucifero voglia arrivare a distruggere l’Onnipotente. Mi sembra proprio che la sua superbia lo abbia rincretinito del tutto e la sua sfrontatezza lo abbia reso completamente cieco.

Spero solo che Lucifero la smetta, altrimenti il Boss un giorno o l’altro si incavola di brutto e lo stermina insieme a tutta la sua gang di illusi.

Tra le tante cose che ancora non ho capito, è come mai il Boss si metta tanti grattacapi in testa creando non solo un essere come Lucifero che trama per distruggerlo ma, come se ciò non bastasse, si regala pure esseri scadenti e incompleti come Adamo e quella scema di sua compagna Eva.

Dove diavolo il Boss veda il senso di aver creato un tizio che sta distruggendo il suo creato neanche questo ancora non l’ho capito.

Durante le mie passate scorribande sul Pianeta Terra ne avevo viste di tutti i colori.

Avevo notato che i discendenti di Adamo per cose materiali a cui loro davano un immenso valore erano pronti a uccidersi.

Avevo visto che gli uomini, per l’effimero sorriso di una delle discendenti di Eva, erano pure così scemi da scatenare delle guerre e scannarsi a vicenda, come se la loro diletta fosse l’unica perfida troia della terra.

Avevo visto e notato che alcuni esseri umani per sentirsi padroni del mondo schiavizzavo altri loro simili e che per questo erano pure pronti a uccidere e sterminare intere popolazioni.

Mi ero anche accorto che una sola di queste orrende creature, era in grado di distruggere l’intera umanità e il pianeta Terra.

Veramente, l’Onnipotente a volte non lo capisco proprio, forse aveva creato tutto questo per tenerci occupati, mah!

Forse aveva creato il creato per svagare un po’ Lucifero e la sua banda di squilibrati e per far loro capire che era meglio per loro se la smettevano di fare i bellimbusti.

Veramente non saprei dirlo. Ma che il Boss avesse creato un essere superiore, ben sapendo che quello avrebbe tramato per occupare il Suo posto, questo, anche perché non avevo esempi pratici o esperienze passate a cui attingere, non riuscivo proprio a capirlo.

Perché un teatro di marionette simile?

Questa volta però il Boss e Lucifero non c’entravano per niente. Questa volta si trattava della mia reticenza a ritornare tra quelle ridicole creature che il Boss, amorevolmente e con tanta benevolenza, come se si trattasse di un cagnolino da passeggio e non di un essere imperfetto, crudele, falso e codardo; chiamava homo sapiens.

Alla fine però quando i miei tre compagni e amici con i quali, seduto sotto il grande albero sulla collina discutevo; mi promisero che sarebbero venuti a farmi visita, accordai e mi decisi di rinascere.

Nascendo liberai dai suoi travagli anche quella povera donna che, vista la mia reticenza di voler nascere, stava per tirare le cuoia.

Non saprei dirlo con sicurezza, il Boss un giorno me lo dirà, ma a pensarci bene, quella di rinascere, salvando così la vita di quella povera donna e liberarla dalle sue pene; credo sia stata una delle mie poche, veramente buone azioni sulla Terra. 

»Se questa povera donna che ora è mia madre si possa veramente ritenere liberata da tutte le pene terrestri o se il futuro, a causa della mia rinascita, non le riservi qualche cosa di peggio, questo è ancora da vedersi. Comunque sia, questa è l’ultima volta che faccio una cazzata simile,« mi promisi, qualche secondo prima di iniziare il mio nuovo cammino su questa ridicola Terra e il buio dei nascituri mi avvolgesse rendendomi inconscio del mio essere.

Finalmente, dopo tutte le paure e speranze del momento, con il mio grido primordiale, nella fredda stanza al terzo piano della Casa di Via Canale Primo numero 4, ritornò la pace.

E così, mentre la signora Giordano, l’ostetrica del paese, dopo avermi quasi a mo’ di ben venuto, sculacciato, girato e rigirato, compiacente con me, contemplava il capolavoro di mia madre, io mi addormentai avvolto in una coperta celeste con i bordi di seta tinta di azzurro, ricavati dai resti di un paracadute che mio zio aveva trovato nei campi.

Il mondo dei mortali dunque mi annoverava di nuovo tra le sue file e la fregatura era tutta mia.

Dei primi giorni e mesi di questa mia vita terrena non ci sono molte cose da dire, quasi niente… non è che mi ricordi proprio  tutto, ma di tutta quella banda di imbecilli che mi guardavano sorridendo facendo stupidi sberleffi manco fossi una scimmia e, parlando in modo alquanto ridicolo, questo sì, di loro mi ricordo eccome mi ricordo.

Della zia Jolanda, la più giovane sorella di mia madre che un pomeriggio di primavera quando avevo si e no due o tre mesi, mi venne a trovare e prima di ritornarsene a casa mi salutò nel cortile, mi ricordo pure.

Come mi ricordo della donna che, come appresi più tardi, era mia nonna Maria.

Mi ricordo molto bene della nonna Maria che, seduta su di una sedia fuori la porta di casa, sotto la pianta di uva fragola che nonno Pasquale aveva pianto subito dopo la mia nascita, con me in grembo stava lì muta e seria e guardava lontano.

La nonna Maria se ne stava lì seduta nel vicolo cieco di Via Canale Primo e muta, mi dondolava silenziosa. A volte mi canticchiava la filastrocca del sor Contento, ed io allora mi addormentavo.

Della mia ferma volontà di rompere tutti di argini e andarmene via al più presto possibile, che già allora si annidava in me, mi ricordo pure molto bene.

Volevo andarmene, scappare via lontano oltre quel budello di vicolo cieco, che limitava i miei orizzonti.

Volevo andarmene via lontano da tutti quelli che mi correvano dietro ogni qualvolta che, a quattro zampe prima e sulle mie gambette malferme subito dopo, cercavo di andare oltre quel piccolo orizzonte e guardavo con disdegno, quasi lo volessi abbattere, quell’alto muro di sassi, eretto dall’altra parte del cortile che mi impediva di guardare lontano.

Già da piccino sdegnavo ogni forma di restrizione e questo, naturalmente, non prometteva niente di buono.

Il Boss aveva predisposto che io nascessi in tempo di guerra. Si, c’era una guerra e la gente si accoppava e moriva come le mosche.

L’intera umanità, come venni a sapere più tardi, si stava distruggendo a causa di un paio di idioti di Tedeschi, Giapponesi e Italiani.

Questi prototipi di homo sapiens si erano addirittura messi in testa di governare il Mondo e per poterlo fare avevano cominciato a togliere di mezzo chiunque non fosse d’accordo con loro.

I tanto amati e benvisti e benvoluti discendenti di Adamo e di quella scema di Eva avevano dunque, ripreso a scannarsi senza nemmeno accorgersi che, in fondo, tutte queste carneficine, tutto questo dolore e morti erano completamente inutili e crudelmente prive di ogni senso.

Il vecchio Pietro davanti alla porta di casa mia ora aveva sicuramente il suo bel daffare. Non che non ci fosse abituato, ma neanche lui che aveva seguito Junior sulla Terra non riusciva a capire il senso di tutto questa orgia di sangue e di morte e spreco di vite umane.

Con Junior era stato abituato a vedere tante cose e spesso gli aveva chiesto di che cazzo stesse parlando. Ora però, dopo quasi duemila anni terreni, anche il vecchio Petrus vedeva che sulla Terra non era cambiato nulla e che l’homo sapiens continuava a scannarsi come prima la venuta di Junior, solo con più vigore, metodo e determinazione.

La Madre di Junior, quando un giorno nel Tempio Lui si era messo a triar di filosofia con quattro vecchi rimbambiti che si credevano sapienti poi, lo aveva ammonito a non dire scemenze ma, come tutti i Figli di Padri onnipotenti, anche Junior non volle saperne di ascoltar ragione e cominciò a rompere i coglioni a tutti, specialmente agli ebrei e che a tutt’oggi sono convinti di essere il popolo prediletto dal Boss.

Nel corso della sua corta parentesi terrestre, Junior ne disse di tutti i colori, ma ne disse tante di quelle che un giorno i farisei scocciati di vederselo in continuazione tra i piedi chiesero ai romani di occuparsi del caso.

I Romani liberarono gli ebrei  dall’impiccio, lo fecero sicuramente in modo alquanto rozzo e villano e del tutto esagerato, ma lo fecero.

La loro, fu un’azione diplomatica più che un intervento giuridico e punitivo contro un dissidente, infatti, furono gli ebrei a volere che Junior fosse tolto di mezzo; non i Romani.

Furono davvero gli ebrei a decidere questo?

Dopo la partenza di Junior dalla Terra le cose non migliorarono, anzi peggiorarono, la gente cominciò a scannarsi peggio di prima ma lo facevano nel nome del Boss e questo era veramente un brutto guaio.

Ancora non ho capito, come tanto meno Pietro non ha ancora capito bene cosa stia succedendo.

La vera ragione di tutto questo scempio, tutto il sangue versato e quello che ancora sarà da versare, tutte le inutili sofferenze, le ingiustizie, le morti a cosa servono, per quale ragione, il Boss ha creato tutto questo?

Per l’ennesima volta però, in tutto questo, vidi lo zampino di Lucifero e i suoi compagni. Pertanto e per il momento mi limitai a registrare il fatto e cominciai a crescere, spedito e veloce. 

Neppure la nonna Maria che aveva due figli in guerra, come tutte le nonne e mamme del mondo, capiva la ragione di questo scempio di vite umane. Stava sempre seduta per delle ore con me in braccio sotto la pianta dell’uva che nonno Pasquale aveva piantato alla mia nascita sperando che la guerra finisse presto e che i suoi figli tornassero presto incolumi a casa.

Quasi tutti gli uomini del Primo Canale erano da qualche parte in guerra contro qualcun altro. I contendenti però, avevano una cosa in comune: nessuno dei due sapeva esattamente del perché cercassero di accopparsi a vicenda.

A quel tempo mio padre, veterano della guerra civile spagnola, era stato, quale primogenito, esonerato dal servizio militare e si trovava in Germania, dalle parti di Hannover, a costruire Panzer per lo zio Adolfo.

Il primo soldato tedesco, lo vidi un giorno quando avevo due anni. A quel tempo non sapevo che cosa fosse un soldato, non sapevo cosa fosse la guerra e tanto meno cosa fosse la Germania. Ricordo solo che quando quell’uomo mi prese in braccio aveva le lagrime agli occhi, come anche le avevano i suoi compagni.

Mi ricordo che non provai paura e che, sorridendo, gli accarezzai la faccia e baciai via le sue lagrime.

I soldati si trovavano al seguito del generale Kesserling che credeva di poter conquistare il mondo e, come più tardi venni a sapere, anche mio padre si trovava sulla via del ritorno verso casa da Hannover. 

La prima volta che scappai da casa avevo tre anni. Volevo andare a vedere qualche cosa che ancora non conoscevo né avevo mai visto prima: Volevo andare a vedere un treno.

Il bello è che non sapevo che cos’era un treno, non ne avevo mai visto uno e tanto meno sapevo dove si trova la ferrovia! Nonostante questo, un bel mattino me ne andai.

Kesserling aveva ordinato la ritirata alle sue truppe e le strade erano intasate da lunghe colonne militari che andavano spedite verso Nord.

L’armata Kesserling era in ritirata seguita da nuvoli di Spitfire inglesi e Mustang americani.

Uno di questi piloti di Spitfire doveva essere stato cieco o, forse, potrebbe veramente darsi che una donna che con le sue due figlie raccoglieva per cena insalata selvaggia nei campi, dall’alto gli possa essere sembrata una pattuglia di soldati nemici.

Fatto sta che l’eroe delle nuvole, scorgendo dall’alto quella donna e le sue due figlie, le scambiò per dei soldati nemici.

L’eroe fece un elegante volteggio e con le sue mitragliatrici falciò via un’intera famiglia.

Anche i baldi eroi partigiani a quel tempo volevano avere la loro parte di gloria.

Decisi a liberare la nazione dall’odiato nemico se non proprio intenzionati a vincere la guerra nei bidoni della spazzatura, come un loro sommo compagno aveva fatto a Roma, pensarono bene di tendere tra le case di Viale Duodo a Codroipo che per via del vecchio mercato del bestiame, famoso e ben conosciuto in tutto il Friuli è detto anche il paese degli asini; un agguato alle truppe tedesche che si stavano ritirando verso Nord.

Le donne di Viale Duodo, però, erano di tutt’altra opinione e, armate di scope e pentole e mattarelli, presero a botte i baldi eroi della resistenza e li fecero scappare via piuttosto malconci ma salvarono, così facendo, le loro case, la vita a noi tutti e probabilmente l’intero paese dalla sicura distruzione.

Ciò che mi successe quel giorno non lo dimenticherò mai più. Senza sapere il perché o come riuscii inspiegabilmente a sfuggire agli occhi di mia madre, della nonna Maria e del nonno Pasquale che non mi perdevano d’occhio un singolo istante, con le mie gambette corte mi incamminai lungo il Primo Canale per andare in cerca di un treno che non avevo mai visto e una strada ferrata che non sapevo né cos’era né tanto meno, figuriamoci poi, dov’era.

Sapevo cosa mi stava succedendo, ne ero perfettamente cosciente e non provavo paura, infatti, non ero solo.

Una decina di anni più tardi quando raccontai il fatto a mia madre quella sorrise e relegò il tutto nel mondo e nelle fantasticherie dei bambini e non ne volle più parlarne.

Fatto è che quella mattina, eludendo la sorveglianza dei miei, tutt’un tratto, mi trovai in compagnia di una moltitudine di persone.

Erano donne, bambini, uomini e giovani che silenziosi, camminavano spediti.

Una delle donne, sorridendomi, mi prese i braccio e mi portò con sé. Furono loro a portarmi in pochissimo tempo sul ciglio della ferrovia, non le mie gambette!

Infatti, come avrei potuto in così poco tempo percorrere i due chilometri che separavano la ferrovia dal Primo Canale sulla strada che porta a Beano e da solo, salire la ripida scarpata che porta ai binari?

Nessuno mi poteva vedere, altrimenti qualcuno del paese mi avrebbe subito fermato e ricondotto a casa.

Furono loro a portarmi lontano, non certo le mie gambette malferme.

Le donne con i bambini per mano, gli uomini dalla marcante faccia serena come scolpita nel marmo con falci e badili sulla spalla, i giovani che con passo sicuro davanti a noi con attrezzi da lavoro in mano… furono loro a portarmi alla ferrovia e non le mie gambette malferme.

Le donne, i bambini, gli uomini, i giovani erano in tanti ed erano sicuri di loro.

»Non avere mai paura di dove andrai, tu non devi mai avere paura, mai, ovunque tu vada sii sempre sicuro di te, non ti succederà mai niente!« mi disse sorridendo una delle donne prima di depositarmi sul sentiero lungo la strada ferrata che si snoda verso Nord, verso e oltre i limiti dei monti lontani.

Gli altri non parlavano. Passandomi accanto mi guardavano e sorridevano e continuavano la loro strada tranquilli e fieri e, come in una lunga processione, camminavano spediti per la loro via ed io mi addormentai accanto ai binari.

Fu lì che mia madre quasi impazzita dalla paura mi trovò. Con altre donne del paese era venuta a cercarmi e mi trovò, addormentato lungo i binari a due chilometri da casa.

E mentre le altre donne sgridavano dei ferrovieri che lavoravano dall’altra parte della strada ferrata a pochi metri di distanza da me, colpevoli di non avermi notato, mia madre piangendo e ridendo allo stesso tempo mi prese in braccio.

Subito dopo passò un lungo treno carico di giovani che salutavano e agitavano i loro elmetti. Li salutai sorridendo a mia volta e, chiedendomi come mai mia madre piangesse, mi addormentai tra le sue braccia mentre lei, poverina, piangeva ancora e non capiva cosa era veramente successo.

Mia madre non ha mai voluto parlare di questo fatto ma quando un giorno le chiesi come mai fosse venuta direttamente proprio là, su quel tratto di ferrovia, a destra del cavalcavia sulla strada che porta a Beano, mi guardò in modo strano, quasi con timore ma non mi seppe rispondere. 

Molte volte, quando da ragazzo irrequieto e impaziente di crescere e di andarmene lontano, nei lungi pomeriggi estivi girovagavo per i campi, ritornai in quel tratto di ferrovia.

 Risalendo quella ripida scarpata, con un pendio di oltre quarantacinque gradi, a destra del sottopassaggio della ferrovia, sulla strada che porta a Beano e non più con le gambette malferme di un bambino di poco più di due anni ma con quelle di un ragazzo, capivo che per un bambino sarebbe stato semplicemente impossibile scalare da solo quel ripido pendio.

Provai fatica allora che avevo dodici e tredici anni e, ogni volta che provavo, mi rendevo conto che nessun bambino di nemmeno tre anni avrebbe mai potuto scalarla da solo.

Già allora, prima da bambino e poi da ragazzo, avevo una fame insaziabile del nuovo, dell’imprevisto, dell’impensabile e un’innata voglia di conoscere e di sapere.

Già allora mi era chiaro che in Paese non ci sarei restato. Volevo conoscere gente, dialogare con loro, saziarmi di loro e delle loro idee, dei loro gusti e pensieri.

Volevo apprendere e comprendere, capire e imparare le loro usanze, i loro costumi, assimilarmi le loro abitudini, farle mie e perché no, anche assimilarle e amalgamarle alle mie evolvendomi con loro.

Volevo conoscere le loro culture, vivere le loro vite e condividere i loro timori e le loro speranze.

Appunto per questo, già sin dalla mia prima infanzia, sapevo che in Paese non sarei rimasto. 

Di ricordi dei primi anni della mia vita che possano essere definiti importanti me ne sono rimasti ben pochi.

Il mondo era in guerra. I bambini, grazie al cielo, non sanno cosa sia la guerra, non conoscono la paura di morire o la morte.

I bambini non concepiscono queste cose, lontane dalla loro innocenza e sincerità.

A quei tempi e di buon mattino, in cielo vedevamo apparire lunghe strisce bianche accompagnate da un brusio monotono e lontano; noi bambini le aspettavamo ogni giorno e le chiamavano angeli.

Rapiti, quasi con devozione e nostalgia, guardavano quelle strisce lassù in alto che si stampavano nell’azzurro del cielo e le salutavamo senza sapere, che poche ore dopo, proprio da quelle lunghe strisce bianche, per tanti bambini come noi, sarebbe scesa la morte.

Durante le notti poi, sulle nostre teste sentivamo il brusio simile a quello delle strisce bianche che vedevamo di giorno.

Lo chiamavano Pippo e, a volte, il suo passaggio segnava la fine di qualche casolare e di intere famiglie.

Nel Primo Canale eravamo in tanti bambini, eravamo una vera e propria orda di bambini che strillando, giocavano rincorrendosi per quel lungo vicolo cieco che mi sembrava sempre un lungo grigio budello senza fine; eravamo veramente in tanti ed eravamo in un vero e proprio tormento per gli adulti.

Non avevamo e non davamo neanche mai pace ai grandi che, a volte ci facevano correre via snervati e infastiditi da tutto quel gridare, dal tutto quel susseguirsi di pianti e risa, che li assaliva ogni giorno, dalla mattina alla sera.

Le loro ammonizioni non ci interessavano più di tanto, li guardavamo incuriositi per un momento, sentivamo quello che avevamo da dire e, quando avevano finito di esortarci a stare più tranquilli e composti o, come qualche volta capitava, a sgridarci, con un’alzata di spalle continuavamo i nostri rumorosi giochi senza più curarci di loro.

A qui tempi avevamo pochissimi giocattoli; per queste cose le nostre famiglie non avevano soldi, non conoscevamo la radio, figuriamoci poi la televisione.

A quel tempo avevamo solo noi, i nostri chiassosi giochi e il nostro mondo in quel lungo budello grigio che era allora Via Canale Primo a Codroipo.

Ogni tanto però, vedevamo che anche i grandi giocavano e, a seconda dei loro giochi, li avevamo divisi in buoni e cattivi.

C’erano le buone zie che non ci sgridavano mai e  zii che non ci dicevano mai di star zitti.

Nel Primo Canale c’era pure uno zio cattivo.

Quest’ultimo mi era sempre sembrato un po’ strano.

Infatti, quando di mattina, scuro in faccia, usciva da casa camminava sempre dritto come tutti i grandi.  Quando invece, ritornava a casa la sera non era più in grado di farlo.

Allora barcollava e, a volte, per non cadere come facevamo noi bambini si teneva appoggiato ai muri delle case o camminava a quattro zampe.

Quando cadeva e non poteva più rialzarsi, allora qualche zia lo aiutava e lui ci sgridava perché lo guardavamo incuriositi.

In quei momenti li, qualcuno di noi bambini, scappava via a casa dalla mamma e non usciva più a giocare con noi finché lo zio cattivo non se ne fosse andato a casa.

Quando però cominciava a dirci cose che noi non capivamo, allora qualche zia gli diceva sempre di tacere e lui, allora gridava ancora di più ma così tanto che anche gli zii delle case vicine uscivano in strada e i grandi incominciavano a giocare.

Noi bambini, tenendoci un po’ in disparte, smettevamo allora di giocare e guardavamo incuriositi i giochi dei grandi, cercando di capire a che gioco stessero giocando.

Mentre una zia gli dava le botte con una scopa, un'altra gli tirava un secchio d’acqua e qualche zio gli dava pure un pugno in testa.

Quello allora incominciava a gridare ancora di più e allora dalle case uscivano tutti gli altri zii e zie e in pochi minuti, tutto il Primo Canale si riempiva di gente che gesticolava e gridava. Tutti incominciavano a giocare e a dirsi cose che non capivo.

Quei giochi dei grandi non mi sono mai piaciuti e così, per non giocare con loro, correvo a casa dalla nonna Maria e mi sedevo su di una seggiolina accanto alla porta aspettando che i grandi la smettessero di giocare.

I giochi dei grandi duravano pochissimo e quando avevano finito di giocare ritornavano nelle loro case e la strada ci apparteneva un'altra volta.

Un giorno vidi arrivare degli uomini molto scuri e chiesi alla mia mamma perché non si lavavano.

Spesso si portavano appresso dei sacchetti di carta e andavano sempre a casa delle zie in fondo al Canale.

A volte stavano poco, ma spesso anche tutta la notte.

Gli uomini che non si lavavano mai sorridevano sempre e a volte, ci davano pure qualche caramella.

Un giorno, vidi come uno di questi uomini scuri si era fermato a parlare con la zia che abitava accanto a noi.

Parlando le aveva dato un sacchettino di caramelle e le aveva accarezzato i capelli come faceva la mia mamma con me.

Invece di essere contenta, la zia cominciò a gridare, lo zio che abitava con lei uscì a sua volta da casa gridando cose che non capivo e lo zio che non si lavava mai, scappò via correndo.

Tutti i grandi che avevano assistito al gioco si misero a ridere e la buona zia, sorridendo pure lei, ci diede tutte le caramelle che aveva in mano.

Da quel girono però, gli uomini che non si lavavano mai non vennero più a trovare le zie che abitavano in fondo al Primo  Canale.

Un paio di giorni dopo, però, erano le zie che andavano via ogni sera, ma quando il giorno dopo, ritornavano a casa con tanti sacchetti di carta in braccio …quelle non ci davano mai una caramella. 

Tra i tanti grandi del Primo Canale il migliore di tutti per me era il nonno Macor.

Il nonno Macor viveva da solo in una piccola stanza dove c’erano: un letto, un tavolo e una sedia e basta.

Dietro la sua porta, con le fessure riempite di carta per tenere fuori il vento e il freddo, aveva piantato dei chiodi dove appendeva il suo cappello, il mantello e i suoi pochi vestiti.

Aveva anche una stufa a legna, piccola e rotonda che lo scaldava d’inverno.

La legna per la stufa andava a raccoglierla nei campi e su quella si preparava anche da mangiare o riscaldava quello che, qualche volta, la mia mamma o le altre zie gli davano.

Il nonno Macor era molto povero, era solo ma non si lamentava, mi sorrideva sempre ed io gli volevo tanto bene.

Appesa al soffitto aveva una piccola campana e ogni giorno, quando quella del campanile della Chiesa suonava, lui le rispondeva con la sua e, congiungendo le mani, pregava.

Non sapevo cosa diceva, capivo solo Angelus Domine e nient’altro. Mi disse che lo faceva ogni giorno e che pregava anche per me. 

In una parte della sua stanza il nonno Macor si era anche dipinto un bel grande quadro che tutti ammiravano perché era veramente molto bello.

Il nonno Macor aveva dipinto una collina tutta verde, in cima alla collina aveva dipinto un grande albero e, sopra l’albero, un grande cielo immenso tutto azzurro.

La collina era molto grande, l’albero sulla collina più grande ancora e il cielo sopra l’albero e la collina ancora più grande dell’albero e della collina messi insieme.

Questo era tutto ciò che il nonno Macor possedeva. Sembrava poco ma era molto, molto di più di quanto si possa pensare o immaginare.

Un giorno gli dissi che sapevo dove aveva visto quel quadro e lui sorrise e mentre mi accarezzava i capelli, i suoi occhi azzurri splendevano come il cielo del quadro.

Qualche giorno dopo, poco prima che cominciassi ad andare all’asilo, dopo la preghiera del mezzodì, nonno Macor cominciò ad andare via con una sua pentola in mano e a ritornare poco dopo con la pentola piena di minestra.

In tasca aveva anche del pane e formaggio. Qualche volta, però, veniva una zia suora a portargli la zuppa a casa e in quei giorni io non potevo andare a trovarlo perché era ammalato. Ma la sua campana suonava ogni mezzodì.

Un pomeriggio d’estate, quando ritornai a casa dall’asilo, vidi che la porta della sua stanza era chiusa e chiesi alla mia mamma, dove fosse il nonno Macor; lei mi rispose che lui le aveva raccomandato di salutarmi e di dirmi che ritornava per sempre a casa dalla sua mamma.

Nessuno sapeva con esattezza chi fosse o da dove nonno Macor venisse, un giorno, forse mandato alla deriva dalla Guerra che imperversava e distruggeva intere città e famiglie, era arrivato in paese chissà da dove. Aveva poi trovato quel bugigattolo e si era potuto stabilire in quella piccola stanza che a suo tempo era un ripostiglio di attrezzi.

Nonno Macor quel giorno se ne era andato via per sempre, tranquillo e silenzioso com’era venuto, quasi non volesse disturbare.

Lo seppellirono con una semplice e frettolosa funzione e sulla sua tomba ci misero una semplice croce di legno.

Anni dopo, venni a sapere che alla semplice funzione religiosa, c’erano tutte le Donne del Primo Canale.

In quegli Anni tanta gente si era persa per strada, molti avevano pure smarrito se stessi e vagavano per le strade del Mondo, confusi e delusi, cercando qualche cosa senza nemmeno più ricordarsi, cosa cercassero ma soprattutto, senza saperne il perché.

Le guerre sono tremende, sembra proprio che l’homo sapiens, non lo voglia proprio capire che la cosa più stupida e cretina che lui può fare, è proprio la guerra.

La Guerra serve a portare avanti il discorso di quattro figli di Puttana che vogliono conquistare o detenere a tutti i costi, il potere senza tener conto delle sofferenze e dei lutti che causano.

La Pace non la si conquista armandosi fino ai denti, o distruggendo moralmente il prossimo, bensì dialogando e rispettandosi a vicenda e non cercando di annientarlo, assimilarlo. La viltà conquista e annienta, la saggezza e il coraggio invece dialogano, valutano e giudicano senza riserve o premunizioni. L’evoluzione umana nasce dal dialogo, non dalla sopraffazione e distruzione dell’altrui pensiero!

Nonno Macor aveva perso tutto, ma non era mai solo e perciò, anche se vecchio e fragile, non si poteva mai perdere.

Lui, che si prendeva il pranzo dalla cucina dei poveri.

Lui, che non aveva nessuno al mondo, aveva qualche cosa di molto forte e indistruttibile; aveva la sua campana che squillava all’Angelus e aveva il suo quadro dipinto sulla bianca parete, della sua stanza annerita un poco dal fumo della sua stufa.

Lui aveva quel suo albero maestoso su quella verde collina sotto quell’impostante cielo blu e pertanto; non era mai solo.  

La cosa strana del Primo Canale era che in tutta quella sarabanda vociante di bambini, era composta solo da maschietti.

Eravamo in otto Famiglie con bambini piccoli, dei quali circa venti erano maschietti e solo tre o quattro femminucce.

Le Famiglie di via Canale Primo non erano ricche né tanto meno agiate; erano Famiglie di operai e manovali e infondo alla Via, c’era pure una Famiglia di ortolani e fioristi che ogni Martedì apriva la propria bancarella al mercato del Paese.

Noi non avevamo la Radio, a quei tempi nessuna delle nostre famiglie poteva permettersela e non sapevamo che cos’era a Televisione.

In compenso però; a quei tempi il dialogo tra la gente era molto più inteso che oggigiorno.

D’inverno ci radunavamo nella stalla di Giovanni il contadino del  vicinato e mentre le donne sferruzzavano calzini e maglie per le loro famiglie, noi bambini ascoltavamo, riscaldati dal calore delle mucche, i discorsi dei grandi.

A quei tempi i grandi avevano sempre qualche cosa da dirsi, da raccontarsi, avvenimenti e fatti successi durante la guerra di cui ricordarsi.

Noi bambini, di tutto quello che dicevano, non ne capivamo ben poco, però ci piaceva sentirli parlare e spesso, stanchi delle scorribande della giornata ci addormentavamo sulle sedioline, allora le nostre madri ci prendevano in braccio e ci portavano a letto che prima riscaldavano con una borraccia militare piena d’acqua calda, o per chi non l’aveva, con un mattone avvolto in un vecchio asciugamano.

Durante l’estate, invece, nel primo cortile del Primo Canale ci si sedevano accanto alla pompa dell’acqua e, quando faceva veramente troppo caldo, c’era sempre qualcuno che pompava l’acqua fresca e annaffiava il cortile che subito si rinfrescava.

Quando molti di noi affermano che “una volta” la gente era migliore dell’odierna, sicuramente manco sanno di sbagliare. L’homo sapiens è e rimarrà tale anche nei secoli a venire: Un mammifero emotivo, a volte codardo, comunque irrazionale ma anche capace di grandi eroismi e di sacrifici personali anche estremi per il bene dei molti.

L’homo sapiens una volta non era migliore, era solo più povero e ignorante e facile preda dei latifondisti, dei demagoghi e falsi profeti che erano sempre pronti a sacrificarlo per i propri interessi.

Sicuramente, subito dopo la guerra però, la gente era più sobria, più semplice e modesta e capace di apprezzare le piccole cose di ogni giorno.

Forse proprio per questo la gente a qui tempi era migliore, infatti, anche se con dolorosi ricordi e lutti, i sopravvissuti erano riconoscenti al loro destino e felici di essere sopravvissuti alla guerra e grati di poter guardare con speranza verso un futuro di pace.

La gente aveva visto la morte in faccia, ne aveva sentito il monotono ronzio alto in cielo e tremato al sibilo e agli scoppi delle bombe che cadevano dal cielo e piangendo dalla paura si era di nuovo ricordata che per ogni essere su questa terra, l’unica cosa certa dopo la nascita, è la morte.

L’uomo che durante la mia prima infanzia ogni mezzogiorno allo scoccare del mezzodì suonava la sua campana e pregava l’Angelus, questo lo sapeva molto bene.

Proprio per questo lui era semplice e modesto, in pace con se stesso e il mondo; contento di ogni raggio di sole che riceveva, di ogni sorriso di bambino che vedeva e di ogni strillo di bambino che sentiva. 

Dal mio terzo Anno di vita in poi, dal momento cioè che la Guerra se ne era andata via dal Paese, cominciai a frequentare l’asilo infantile delle suore.

Mia madre mi ci portava la mattina e mi riprendeva il pomeriggio, io però volevo andarci sempre da solo senza impicci e ogni mattina facevo una mezza rivoluzione perché non volevo avere i grandi tra i piedi a dirmi quando e cosa dovevo fare.

Ben presto mi accorsi, e quella fu la mia prima lezione di Vita, che contro la forza la ragione non vale, pertanto dovetti abituarmi al fatto che mia madre mi portava ogni mattina all’asilo e mi riprendeva in consegna il pomeriggio.

Un giorno ne ebbi abbastanza e decisi di evadere e di andarmene via, volevo scappare via lontano dai grandi che mi volevano sempre condizionarmi e limitare il mio orizzonte.

Volevo dimostrare ai grandi che non avevo bisogno di loro e che pertanto, potevo benissimo badare a me stesso.

Sgattaiolai via da una breccia nel portone dell’asilo e me ne andai in paese a fare un giro esplorativo.

Il paese a quel tempo era in prevalenza agricolo con qualche bottega artigianale, un paio di negozi e tante osterie, quasi un villaggio quieto e facile da esplorare, dove un bambino solo per strada non impensieriva più di tanto.

Quel giorno e per l’ennesima volta, mi fu negato di andare lontano alla scoperta del mondo sconosciuto, la negazione in assoluto mi apparse nel bel mezzo della Piazza sotto forma di suor Armanda che senza mezzi termini mi prese in braccio e mi riporto all’ovile.

A giudicare dalla sua faccia dovevo dedurre che suor Armanda era piuttosto arrabbiata come me e quando raggiungemmo l’asilo, per castigo lei mi rinchiuse nella cantina del carbone da ciò dedussi che, più che più che essere arrabbiata, suor Armanda era incazzata nera.

Impavido e non curante die suoi ammonimenti, vidi che sopra la catasta del carbone c’era una finestrella aperta, scalai il mucchio e usci di nuovo in cortile.

L’unico problema fu che uscii in cortile proprio quando mia madre arrivava per riprendermi in consegna; lei vide il filius uscire a quattro zampe fuori dalla finestrella della cantina, nero come il carbone e fece il diavolo a quattro con la prima suora che le capito a tiro. 

I loro discorsi però non mi interessavano proprio e così, mentre loro discutevano, colsi l’occasione propizia e scappai nuovamente via alla scoperta del mondo.

Ja Scheiße, questo naturalmente non piacque a mia madre che nel frattempo si era sicuramente lasciata convincere dalla suora che ero un discolo irrequieto e testardo.

Quel pomeriggio, le mie intraprendenze di esploratore solitario finirono ingloriosamente in un secchio di legno nel cortile di casa, con un noioso bagno fuori programma, un paio di sculacciate e qualche lagrima.

I primi giorni di scuola alle elementari mi fecero capire che il Paese abbondava di una cosa sola: di bambini; a occhio e croce eravamo oltre trecento e anche lì, come nel Primo Canale, i maschietti erano più numerosi delle femminucce.

La mia cartella di cartone marrone era molto scarna, avevo un astuccio con una matita una gomma per cancellare, il sillabario e un quaderno.

Altri invece avevano tante matite colorate e quaderni da dipingere che ci mostravano a scuola, si portavano la merendina con i biscotti e la marmellata, mentre la gran parte di noi invece, non aveva niente, e doveva attendere fino a mezzogiorno per magiare la minestra.

Sulle prime ero un po’ invidioso delle loro matite colorate, poi però mi accorsi che questi bambini durante la ricreazione nel cortile della scuola non giocavano mai con noi. Questi bambini, se ne stavano sempre in disparte a guardare i nostri giochi, non erano chiassosi e allegri come noi, guardavano e basta e non capivo proprio perché come mai, c’erano dei bambini che non volevano giocare come noi.

Un giorno, chiesi a uno di loro perché veniva a scuola calzando sempre le scarpe della domenica; sorridendo della mia ingenuità, mi rispose, che quelle non erano le scarpe della Domenica e, che a casa, ne possedeva delle altre. La sua risposta la trovai strana, infatti, ero convinto che i bambini dovessero calzare le scarpe buone quando di Domenica andavano a Messa con la loro mamma e non ogni giorno.

Durante la settimana calzavo sempre le ciabatte di stoffa che la mamma mi faceva e perché non mi bagnassi i piedi, la suola era fatta con i vecchi copertoni della bicicletta del nonno Pasquale.

Le scarpe di stoffa erano molto leggere e non facevano male ai piedi come le scarpe buone, della Domenica. Con le ciabatte ai piedi potevo correre meglio e giocare quanto volevo senza badare a non insudiciarle, quando poi si sporcavano allora bastava lavarle la sera prima di andare a dormire, sotto la pompa nel cortile o nel secchio di legno dove la mamma mi lavava ed erano asciutte e pulite la mattina dopo. Quando poi si rompevano, senza sgridare la mamma me ne faceva subito delle nuove.

I bambini che avevano sempre le scarpe della Domenica invece non potevano mai giocare con noi, dovevano sempre stare attenti a non sporcarsi le scarpe altrimenti le loro mamme li avrebbero sgridati.

Un giorno che pioveva da matti, anche la roggia che passa vicino alla scuola straripò e la piazza era un poco allagata.

Quel giorno la mamma venne alla scuola con la bicicletta del nonno e mi portò a casa.

Alcuni dei bambini con le scarpe della Domenica invece vennero portati a casa con la macchina, e quando ci salivano sopra, le loro mamme li sgridavano perché si erano bagnate e sporcate le scarpe.

Deve essere proprio brutto vivere con delle mamme simili.

La mia mamma invece, anche se le mie ciabatte si erano bagnate non mi sgridò, me le tolse assieme ai calzini di lana fatti in casa che si erano bagnati pure quelli, mi asciugo i piedi con un asciugamano e mise le ciabatte accanto alla stufa ad asciugare ed io, visto che fuori pioveva che sembrava il diluvio e mi misi a fare i compiti di casa.

Nel 1950 il Comune ci assegno una casa popolare.

La nostra nuova casa aveva due piani, con tante finestre che lasciavano entrare il sole e le stanze, specialmente d’estate, erano sempre piene di luce. Avevamo una stanza ripostiglio con la pompa dell’acqua una cucina e un salotto, al piano di sotto, e, due camere e un bagno a quello di sopra.

La nuova dimora faceva parte su una schiera di altri sette appartamenti dove ognuno aveva anche il suo piccolo cortile didietro e un giardinetto davanti.

Tutto ci sembrava in regola e specialmente noi bambini, eravamo molto contenti di avere una camera per conto nostro, lontani dal russare di papà.

Il giorno che prendemmo possesso della nostra nuova dimora, mio fratello, dopo aver ispezionato il cortile, cominciò a girare furtivo per ogni stanza.

Iniziando dal sottoscala lo vidi passare in rassegna tutte le stanze fino al bagno, dove c’erano: una vasca da bagno di cemento, un lavandino con i rubinetti che bastava aprirli per far uscire l’acqua e uno strano lavandino che non avevamo mai visto, prima.

»Nel cortile non c’è il cesso e in questa casa manca il buco per cagare « -sentenzio il mio fratellino- »mamma in questa casa non si può cagare, come facciamo, dobbiamo cagare nel secchio, come facevamo di notte nella casa vecchia?«

Sentendolo gridare dalle scale, paziente e ridendo i nostri genitori vennero e ci spiegarono la funzione dello strano lavandino e anche quella della catenella che pendeva da una cassetta in alto sotto il soffitto sopra la tazza. Ci spiegarono che quello strano lavandino era un water e che da quel giorno in poi non dovevamo più portarci dietro un ritaglio di giornale come dovevamo fare nel Primo Canale quando si andava al cesso comune a tutte le famiglie in cortile e tanto meno un secchio d’acqua. Nel bagno della casa nuova, accanto alla tazza, c’era un rotolo, la mamma ci disse che quello era di carta igienica e, quella, ci spiegò, sostituiva i ritagli di giornale.

Mio fratello di sei anni si fece spiegare il tutto un'altra volta e volle subito fare una prova. Quel pomeriggio stando seduto sulla tazza mio fratello mi disse una frase, che non dimenticherò mai, campassi cent’anni, infatti, disse: »Franco qui sì che e bello cagare e si può pure guardare fuori dalla finestra«

La vita nella nuova casa aveva assunto un aspetto migliore, le nostre giornate, lontane dalle grigie mura del Primo Canale erano diventate più spaziose e luminose.

I nostri orizzonti si erano allargati e dalla nostra camera vedevamo le montagne lontane.

Da quel giorno in poi, ogni mattina prima di andare a scuola, il mio primo compito era di pompare l’acqua nella cisterna che stava in soffitta.

Dovevo pompare finché l‘acqua dal sovrappieno del serbatoio non usciva dalla grondaia; quell’acqua poi, ci bastava per un’intera giornata. Solamente il Lunedì quando la mamma faceva il bucato oppure il Sabato sera quando dovevamo fare il bagno, in casa serviva più acqua e perciò dovevo pompare di più.

La nuova casa mi piaceva, a volte, però pensavo che nella vecchia casa, certe cose fossero molto più semplici.

Nella casa vecchia il bucato si faceva nella roggia, in quella nuova invece dovevo pompare ogni Lunedì tanta acqua nella botticella di legno, dove la mamma ci lavava i panni.

Quando risciacquava i panni che lei poi stendeva in cortile ad asciugare al sole, allora sì che le serviva tanta acqua, quel giorno, invece di andare a giocare dovevo starmene lì a pompare finche lei aveva risciacquato tutti i panni.

In quei momenti pensavo che la roggia fosse sicuramente migliore.

Nel cortile la mamma si era fatta anche un orticello, era piccolo ma grande abbastanza per un po’ d’insalata e quattro pomodori, dei cetrioli, del prezzemolo, del rosmarino e della salvia, un poco di basilico e un alberello di cachi.

Un giorno papà divise con una palizzata in cortile in due e costruì anche due gabbie di legno perché la mamma voleva allevare dei conigli e dei polli.

Infatti, un bel giorno la mamma arrivo a casa con una gallina e ci disse che quella era una chioccia e la mise nel sottoscala in una cesta con tante uova a covare.

Mio fratello ed io non avevo mai visto una cosa simile e, incuriositi, aspettavo impazienti di vedere nascere i pulcini.

Qualche giorno dopo la mamma arrivo a casa con due sporte piene di conigli, e così mi fu assegnato un altro compito, quello di andare in giro per i campi a raccogliere erba per dar loro da mangiare.

Un bel mattino, trovammo il sottoscala invaso dai pulcini e quando questi diventarono galline, cominciarono a deporre le uova e cosi, due volte per settimana, a cena mangiavamo la frittata con la cipolla o con le patate.

Mio fratello ed io mangiavamo tutto quello che la mamma ci preparava per pranzo o per cena, ma facevamo sempre una mezza rivoluzione ogni qualvolta che la mamma preparava uova sode in umido con il porro, quelle non ci piacevano proprio.

La ricetta l’aveva trovata in un calendario, meno male che, grazie alla nostra caparbietà, le uova sode in umido con il porro sparirono dalla nostra tavola.

Ogni tanto la Domenica sera, invece mangiavamo un coniglio arrosto con le patate o magari, anche un pollo.

La nostra vita nella casa nuova aveva assunto un'altra dimensione e le restrizioni del Primo Canale erano finite.

Dalle finestre dalla nostra stanza da letto potevamo vedere lontano e dall’altra parte della nuova Strada fatta apposta per noi, cerano i campi di granoturco.

Indubbiamente, nella casa nuova la vita era migliore che nel Primo Canale.

Nella casa vecchia, dopo mangiato dovevo fare subito i compiti di casa, in quella nuova invece no.

Nella casa nuova invece, prima di fare i compiti dovevo andare nei campi a raccogliere erba per i nostri conigli, i compiti per casa poi, li facevo alla sera, prima di cena.

A raccogliere erba andavo sempre con gli altri bambini che già conoscevo dalla scuola e che ora erano miei vicini di casa. 

Anche loro avevano dei conigli da allevare e cosi; con un sacchetto sotto braccio, andavamo assieme a raccogliere erba nei campi.

Giocavamo nei campi, salivamo sugli alberi e se ci sbucciavamo le ginocchia, pulivamo via il sangue e spalmavamo la ferita con un po’ di saliva, dopo averla pulita con qualche goccia di pipì.

D’estate poi, nei campi trovavamo sempre il ben d’Iddio.

Le ciliege, le pesche, le mele, l’uva, all’inizio avevamo chiesto ai contadini se potevamo mangiarne alcune, per tutta risposta quelli non solo ci sgridarono, ma ci fecero anche scappare via.

La guerra tra noi e i contadini cominciò proprio per questo, noi volevamo solo assaggiare e per questo loro ci sgridarono, ci fecero anche paura e così, per ripicca, noi la smettemmo di chiedere e stando attenti a non farci vedere, cominciammo a farci delle vere e proprie scorpacciate di tutta la frutta che trovavamo nei campi.

Da quel giorno i contadini che lavoravano nei campi cominciarono a vederci come una piaga di cavallette e a guardarci male ogni volta che passavamo vicino ai loro campi.

Qualche volta ci correvano dietro, ma era tempo perso, era come corre dietro ad una lepre, noi scappavamo a nasconderci nel granoturco e facevamo perdere le nostre tracce.

Giravamo da monelli, infatti, lo eravamo diventati proprio grazie ai nuovi spazi che avevamo a disposizione, giravamo per i prati in fiore, saltavamo nei fossi e facevamo il bagno nell’acqua fredda che d’estate scorreva cristallina nei canali dell’irrigazione.

Scorrazzavamo sempre in calzoncini corti e senza canottiera, ed eravamo tutti abbronzati e scuri come mulatti.

Avevamo il nostro albero preferito, dove ci radunavamo e progettavamo quasi in modo strategico il nostro pomeriggio.

Un bel giorno però, seduti sotto il nostro albero, c’era una donna in compagnia di un anziano contadino; i due parlavano tra loro, non appena ci videro arrivare, la donna ci fece subito correre via.

Trovammo il contadino e la donna quasi ogni giorno seduti sotto l’albero; allora tiravamo dritto salutandoli e giacché il contadino era seduto sotto l’albero intento a parlare con la donna, noi bambini andavamo nei suoi campi a mangiare le pesche e l’uva.
Una volta con noi c’era pure Aldo, un ragazzo più vecchio di noi; lui abitava in un’altra strada ma qual giorno, era venuto via con noi in giro per i campi.

Quel giorno vedemmo che il contadino e la donna sotto l’albero stavano giocando un gioco che ancora non avevamo mai visto prima e Aldo ci disse ridendo che i due non stavano giocando, bensì chiavando.

Più tardi ci spiegò che la donna che giocava con il vecchio contadino veniva da un paese vicino al nostro, ci disse anche dove abitava, altro non seppe dirci.

Noi però continuammo per la nostra strada e visto che il contadino era occupato a giocare andammo di nuovo nei suoi campi a mangiare le pesche e a farci l’erba per i conigli.

Quella stessa sera dopo cena mentre eravamo seduti al fresco davanti alla porta di casa, mentre i grandi parlavano, mi ricordai della donna e del contadino che giocavano a chiavarsi sotto l’albero e chiesi alla mamma che gioco era.

Per tutta risposta quella mi mollo uno schiaffo ed io cominciai a piangere.

I grandi si misero a ridere; risero tanto e a lungo, finché uno di loro mi chiese dove e da chi avevo sentito di quel gioco.

Cosi, tenendo ben d’occhio le mani della mamma; raccontai della donna e del vecchio contadino che da un po` di tempo vedevamo sempre sotto l’albero a giocare o a parlare. Raccontai anche che Aldo ci aveva spiegato che i due giocavano a chiavare e chiesi anche alla mamma perché mi aveva picchiato.

Gli uomini si misero a ridere ancora di più, le mamme invece no, quelle non ridevano proprio, anzi, sembravano veramente molto arrabbiate e quando la mia mamma mi chiese se conoscevamo quella donna, tenendomi un poco in disparte per non ricevere un altro scappellotto, le disse che quella veniva dal paese vicino e che Aldo la conosceva.

Uno degli Uomini disse che quella era la puttana del paese; non sapevo che cosa fosse una puttana, ma, nel timore di prendere un’altra sberla, me ne guardai bene dal chiedere e pertanto stetti zitto.

Le nostre mamme erano diventate rabbiose per davvero e dissero agli uomini di smetterla di ridere e parlando tra loro, in pochi minuti decisero di andare l’indomani a parlare con la donna del paese vicino.

Le mamme, l’indomani mattina, mentre noi eravamo a scuola, andarono in bicicletta a parlare con quella donna e da quel giorno lei non venne più giocare con il vecchio contadino sotto il nostro albero.

Neanche il contadino si fece più vedere.

Un giorno, sentii dire che il vecchio contadino era caduto dal suo carro e che si era rotta una gamba e un braccio e che per un poco non poteva più camminare o lavorare nei campi.

L’albero era di nuovo nostro. 

La mia prima banana la mangiai quando già avevo undici anni.

Conoscevo le banane, le avevo viste dal fruttivendolo e ogni Martedì durante il mercato settimanale, sulle bancarelle della frutta, ma non ne avevo mai mangiata una.

La mamma non le comprava mai perché costavano troppo.

Potevamo andare in giro eri campi a pesche a uva a fragole o a pere, ma mai a banane, infatti, i contadini non le piantavano.

Il giorno, che riuscii a mangiare mia prima banana, alcuni miei amici erano andati dallo straccivendolo e rotamaio a rubare ferro vecchio e mi avevano detto di starmene dietro il muro di cinta e fischiare se vedevo arrivare un Vigile Urbano o un curioso abitante della zona.

I due erano riusciti a scavalcare il muro di cinta e dopo avere gettato un mezzo sacco di pentole di alluminio sulla stradicciola, andarono tranquilli e bussare al portone del rotamaio e gli rivendettero il suo alluminio.

Quell’impresa mi frutto trenta lire.

I miei problemi iniziarono quando cominciai a chiedermi che cosa avrei dovuto fare con quei soldi.

Sarebbe stato impossibile tenermi i soldi in tasca, prima o poi la mamma se ne sarebbe accorta e allora avrei dovuto spiegarne la provenienza e questo avrebbe sicuramente complicato  un poco  la faccenda.

L’idea di dovermi sottoporre a una sorta di botta e risposta dove alla fine se non fossi stato attento a cosa dicevo, ci sarebbero state solo le botte, non mi piacque per niente e cosi, per forza di cose e spirito di sicurezza personale, per non andare in contro a dei guai, decisi di spenderli.

Mi regalai un paio di banane un gelato e un gianduiotto.

I miei amici dal canto loro con i soldi del rottamaio volevano andare al cinema e comprarsi una palla di gomma per giocare a pallone.

Il mio guaio era che sapevo che in fondo avevamo rubato e comincia a sentire rimorsi, per ritrovare la pace con la mia coscienza e non dover finire all’inferno per quattro pignatte di alluminio tutte rotte, il Sabato pomeriggio decisi di andare a confessarmi e raccontai tutto al Parroco.

Era la prima volta che raccontavo queste cose al nostro Parroco e anche se non mi vedeva e non sapeva chi ero, mi vergognavo un poco.

Il Parroco dopo avermi ammonito a non farlo più, mi condanno a dire una mezza sfilza di preghiere alta come il Campanile che dopo la confessione, recitai in cinque minuti. Dopo la penitenza, contento di non avere più peccati e di avere un’anima bianca e pulita, corsi nel cortile della Chiesa, dove i miei amici stavano giovando con la palla di gomma comprata con i soldi rubati al rottamaio.

I due miei nuovi amici erano molto più grandi di me, avevano già quindici o sedici anni e non dovevano andare a confessarsi ogni Sabato come dovevo fare io.

I loro papà parlavano sempre male dei preti e dicevano che bisognava mandarli via.

Questo a me non piaceva, il nostro Parroco era molto buono come lo erano gli altri Sacerdoti del Paese e non capivo perché i papà dei miei amici, li volessero cacciare via dal Paese.

Un giorno, mi portarono in una casa, dove sulla porta, c’era un’insegna con una bandiera rossa con falce e martello.

La stanza era grande e aveva le pareti tutte tappezzate con volantini e manifesti e bandiere rosse con falci e martelli. Appesi a una parte, dietro un grande tavolo pieno di volantini e scatole, c’erano delle fotografie di Uomini che non conoscevo, uno di loro con una barbetta come una capra con il braccio alzato salutava qualcun altro.

Uno degli uomini da una scatolina prese un distintivo, dove si vedevano una falce e un martello e sotto c’era scritto PCI e me l’appunto ridendo, sulla canottiera.

 Faceva caldo quel giorno e mentre gli uomini bevevano vino spillato una damigiana posta su di un altro tavolo accanto a tanti bicchieri e misure per il vino; uno degli uomini accanto alla damigiana, ci diede un’aranciata ciascuno.

La sera stessa durante la cena il papà mi tolse il distintivo e mi chiese chi me lo avesse dato.

Gli spiegai tutto per filo e per segno e lui si mise il bel distintivo in tasca dicendomi che lo avrebbe restituito a quelli del PCI.

La mamma poi mi chiese come mai ero andato in quella casa e così, tenendo ben d’occhio le sue mani, dovetti spiegare pure a lei tutto quello che era successo quel pomeriggio.

Mi disse solo di non andarci più perché quegli uomini la, erano contro il Parroco e la cosa fini li.

I miei nuovi amici, avevamo sempre qualche liretta in tasca. Qualche volta quando ne avevano più del solito, allora mi davano qualche dieci lire o un paio di stri schiette di gomma da masticare.

Loro mi dicevano che avevano aiutato i contadini e ricevuto un po’ di soldi, ma io sapevo che non era vero e che quei soldi li avevano presi dal rottamaio dopo avergli venduto il ferro o l’alluminio rubatogli prima.

La mamma mi aveva detto che loro erano troppo grandi per me e mi aveva proibito di andare a giocare con loro.

Meno male che ogni Sabato mi potevo confessare.

Ogni Sabato raccontavo i miei peccati al Parroco che poi mi dava una penitenza e cosi ero di nuovo in regola con il mio angelo custode e potevo continuare a giocare con i miei amici.

In quell’anno durante le ferie estive, ogni pomeriggio ci ritrovavamo sotto il nostro l’albero dietro il Cimitero e dopo aver deciso in modo strategico sul daffare, andavamo a raccogliere erba per i nostri conigli.

Avevamo tempo, tutto il pomeriggio, fin quasi l’ora di cena era per tutto noi. Eravamo dei veri e propri monelli, giravamo per i campi e a volte ci spingevamo fino sulle rive del Tagliamento, dove cercavamo un posto tranquillo con acqua poco profonda e facevamo il bagno.

Durante le nostre scorribande, decidevamo sempre che tipo di uva o frutta da mangiare quel giorno, infatti, non avevamo che l’imbarazzo della scelta.

Sapevamo sempre, quale contadino era nei campi, cosa faceva e dove lavorava, io allora mi facevo vedere e mentre lui mi teneva d’occhio, i miei amici dall’altra parte del campo, dalle viti colme di grappoli d’uva, prendevano ciò che volevamo.

La frutta la risciacquavamo in uno dei tanti canali per l’irrigazione che solcano la fertile terra friulana e, seduti sul ciglio di un fosso o all’ombra di qualche gelso, golosi e mai sazi, mangiavamo la nostra preda. 

L’acqua che scorreva fresca e cristallina nei canali per l’irrigazione dei campi era purissima e si poteva bere senza problemi.

Negli anni cinquanta la pianura friulana d’estate era come immane fontana, anche a pochi metri da casa nostra quando il sole, scioglieva la neve sulle montagne in più punti come d’incanto l’acqua sgorgava dalla Terra.

Tutta quest’acqua sorgiva poi finiva nella roggia e nel fiume Stella. La flora di quel fiume, come quella del Tagliamento, è unica in Europa ed entrambi sono zone protette.

D’estate poi quando mio nonno irrigava i campi, mi portava sempre con lui e cosi, potevo vedere come faceva.

Il sistema d’irrigazione era molto raffinato e i suoi canali si estendevano per diverse decine di chilometri quadrati.

Ogni campo aveva accesso a un canale e con un semplice sistema di chiuse che in fondo, non era altro che un ingegnoso sistema di piccoli portelli di legno, con questi, ogni contadino poteva deviare l’acqua nei suoi campi o lasciarla scorre in quelli del vicino.

In Paese in quegli anni c’erano pure diversi cacciatori e pescatori di frodo, lo facevano per sopravvivere in un Paese ancora dilaniato dai rancori tra partigiani comunisti e gli uomini di destra com’era mio padre. Anni dopo venni anche a sapere che ritornando il distintivo del PCI all’uomo che me lo aveva regalato, mio padre da amico, gli consiglio di non farlo mai più, meno male che quei due erano compagni di scuola.

I cacciatori e pescatori di frodo pescavano di notte con le lampade a carburo e la fiocina per mantenere le loro famiglie e di giorno cacciavano nelle campagne le lepri e i fagiani e qualsiasi altro volatile che avesse la malaugurata idea di passare davanti alle canne dei loro dannati schioppi.

A quel tempo il pesce abbondava nelle acque pure e limpide dei ruscelli e nei campi si vedevano sempre lepri e fagiani, falchi e altri rapaci che li scrutavano e li cacciavano dall’alto. 

Con i miei nuovi amici andavo molto d’accordo, conoscevano tante cose a me sconosciute, erano già stati via con il treno fino a Udine e andavano ogni Domenica al cinema, anche a quelli per soli adulti o esclusi e si erano già presi diverse volte a sassate con i ragazzi dei paesi vicini.

A casa mia le cose erano differenti, la mamma non voleva che stessi troppo tempo lontano di casa e mi aveva anche proibito di andare al fiume.

Dovevo solo andare con gli altri a raccogliere erba per i conigli, studiare un poco e badare a mio fratello di quattro anni più piccolo di me, di più, non avrei potuto fare, meno male che il Sabato pomeriggio potevo andare dal Parroco a confessarmi.

Mio fratello ed io andavamo molto d’accordo, anche se qualche volta con brio e contentezza gli avrei tirato un calcio, giocavo sempre volentieri con lui e ogni volta che i miei amici mi davano una striscia di gomma da masticare, la dividevo con lui.

D’Inverno quando faceva freddo e per riscaldare il letto, noi ci portavamo le borracce dell’acqua calda e lui si lamentava sempre che la sua non gli bastava, allora io per riscaldarlo andavo con lui nel suo letto.

Infatti, il furbastro si era accorto che suo fratello maggiore era più efficiente a riscaldare il suo letto che la borsa dell’acqua calda che la mamma aveva vinto alla pesca durante la sagra autunnale del nostro patrono San Simone e pertanto mi voleva avere sempre con se..

A quel tempo non avevamo ancora i caloriferi e la nostra cucina era l’unica stanza riscaldata e la nostra stufa era troppo piccola.

Io ci andavo sempre volentieri anche e sapevo che una volta scaldato, lui mi cacciava via e cosi dovevo andarmene nel mio che naturalmente era ancora freddo.

Mio fratello Sandro si spense dopo una breve malattia quattro anni dopo e anche oggi, a quasi sessant’anni dalla sua scomparsa, mi manca quella piccola carogna che quando faceva freddo, mi chiamava nel suo letto perché lo riscaldassi e mi cacciava via, minacciando di svegliare nostra madre, quando si era scaldato, qualche volta, vorrei che la fuori facesse lo stesso freddo di allora.  

Quando la quasi monotonia delle Scuole Elementari finalmente terminò, mi sentii quasi come liberato da un nemico, mi sentivo già grande e pronto a scardinare il mondo.

Già allora, nell’Estate del 1951 sentivo che in Paese non ci sarei restato.

Da bambino quando ancora abitavamo nel Primo Canale, dividevo i grandi in buoni e cattivi, ora da grandicello, cominciavo a dividerli in servili e opportunisti da un lato e, padroni e sfruttatori dall’altro.

Negli anni mi ero accorto che la fine della Guerra aveva cambiato poco, se non quasi niente.

La Gente si leccava le ferite coltivando vecchi rancori, originati dalla quasi certezza e impossibilità di non aver mai potuto e di non essere in grado rompere nemmeno a Guerra finita, le catene della povertà e degli stenti e del duro lavoro di una società contadina, abituata a lavorare dal sorgere al calar del sole e a ubbidire, soprattutto a subire soprusi e angherie sociali di ogni genere, senza protestare.

A quei tempi protestare significava perdere subito il lavoro.

Sembra veramente che la società friulana di allora fosse formata da schiavi o uomini di seconda classe e che cercasse uno sbocco liberatorio nel PCI.

A quel tempo il paese non aveva molto da offrire, almeno per noi adolescenti i nostri orizzonti finivano sull’altra riva del Tagliamento o alla fine della terra, la, dove i binari della ferrovia sembravano congiungersi.

 In Paese esisteva ancora una villana dipendenza verso tutti quelli che giravano con la cravatta anche durante i giorni feriali.

La morsa del giogo di veneziano e aristocratico stampo, benedetto alla Chiesa, serpeggiava ancora nelle menti dei più, questo anche perché le possibilità di lavoro che il Paese aveva da offrire, erano piuttosto poche.

La gioventù di allora non aveva che l’imbarazzo della scelta, tra il lavoro nell’edilizia o nell’artigianato o se di famiglia contadina . nell’agricoltura che allora era molto faticosa e non molto redditizia.

La loro strada era aperta al lavoro come manovale con una misera paga per oltre sessanta ore di lavoro settimanale, oppure come apprendista muratore o artigianale, quasi senza paga.

Il salario degli apprendisti a quel tempo era una mancia domenicale e tanti ringraziamenti e inchini verso il padrone per avere dato la possibilità di imparare un mestiere.

Un’alternativa all’ampiamento degli orizzonti che il paese aveva in petto e che offriva ai giovani, era quella di commesso in uno dei negozi che vendevano bottoni e nastrini colorati, stoffe e indumenti vari.

C’erano sì, anche dei piccoli confabulatori d’affari, forestieri veneti o triestini, veri e propri schiavisti che sparirono con l’evolversi della società contadina friulana, ma oltre all’edilizia all’artigianato e allo schiavismo del facchinaggio, il Paese non aveva altro da offrire.

In quel periodo, industrie di sorta in Friuli se ne trovavano ben poche, l’assunzione in posti e lavori di un certo rilievo dipendeva ancora in gran parte dal Parroco o dai sindacati e non, dalle capacità e idoneità delle persone.

Ieri come oggi, valeva il chi sei e non cosa sai fare o di che pasta sei fatto.

Anche sotto quest’aspetto, il male Italiano attuale germogliò in quel periodo la.

Le scarpe che il paese aveva da offrirmi mi andavano troppo strette, la mia era, una ribellione interna, tutta mia personale e che nessuno poteva domare.

D’altronde, per continuare ad andare a scuola, da noi mancavano i soldi. A quel tempo però capii che se avessi potuto scegliere, mi sarei rifiutato di studiare, appunto per non diventare parte di una mentalità sociale, che già nella mia infanzia e adolescenza, mi era aliena.

Un bel giorno in casa cominciarono a serpeggiare le prime previsioni per il mio futuro.

La scelta era semplice, lavorare, imparare un mestiere o studiare almeno fino alla terza media.

Imparare a contare bottoni colorati e impacchettare nastrini e stoffe colorate, andare nell’edilizia o nell’artigianato oppure, come altri miei compagni di classe, aspettare Godot che era sì già stato inventato, ma che ancora, nessuno conosceva.

Mia madre, che non conosceva Godot, mi aveva trovato un posto di aspirante commesso in un negozio d’indumenti e stoffe, bottoni colorati e nastrini variopinti.

Ja Scheiße, la sonora risata che le feci in faccia quando me lo disse, fece accorrere anche la vicina di casa che incuriosita dalla mia ilarità, era venuta correndo da noi, a vedere cosa era successo.

Mia madre dal canto suo, dopo un momento di perplessità, ridendo, come di consuetudine mi mollo uno schiaffo e mi disse di levarmi subito dai piedi.

Sentivo che il mio Mondo era quello della tecnica applicata, volevo diventare aggiustatore meccanico, costruire, fare, migliorare e non dicerto, vendere nastrini variopinti e bottoni colorati in un negozio di provincia, nel paese degli asini.

L’artigianato friulano di allora, anche se per un apprendista non era certo il Paradiso terrestre, oltre a molto lavoro e poche palanche, trasmetteva ai giovani qualche cosa di molto importante, un solido mestiere e insegnava a usare il cervello in modo indipendente.

L’arte artigianale friulana, tramandata nei secoli da padre a figlio, da padrone a garzone, è ormai sparita, distrutta da una cultura e politica del lavoro, sbagliata e contradittoria, che appunto, nacque e si sviluppò, durante gli anni della mia adolescenza.

Oggi, anche se nessuno ha il coraggio di ammetterlo apertamente, dell’apprendistato di allora se ne sente dolorosamente la mancanza specialmente quando s’iniziano a contare le croci e le lapidi delle attuali Morti Bianche che popolano tutti i Cimiteri della Penisola dal Brennero a Lampedusa, allora ci si accorge dei danni fatti alla società Italiana dai politici, dai sindacati e dal clero.

Tutto questo non è altro che il risultato delle bandiere rosse con la falce e il martello, con i bei distintivi colorati da appuntare sulle canottiere dei bambini e discorsi sindacalisti vari e della strafottente morbosità di soldi e potere  Italiana, da parte della cosiddetta nomenklatura e di una curia che predica bene, ma razzola male.

Alla fine del tirocinio di apprendista ai giovani intraprendenti e speranzosi di una vita migliore, rimaneva solo una possibilità: Emigrare.

È stata la speranza, la voglia e la determinazione a rompere le catene della povertà e dello schiavismo politico a produrre il miracolo economico italiano. Lo iniziarono gli emigranti con le loro rimesse; non i politici. Fu chi andò via; a creare i presupposti per un vero rilancio economico in Italia mai visto prima.

Furono gli emigranti ad alimentarlo e ampliarono con il loro lavoro.

Aumentando il potere d’acquisto delle loro famiglie in Italia gli emigranti italiani incrementarono l’uso di bottoni e nastrini variopinti, sfoltirono le file dei disoccupati in Italia e diedero la possibilità ai loro coetanei rimasti a casa, di trovare lavoro più facilmente, infatti, gli emigranti crearono e, lo stanno facendo tuttora, posti di lavoro, nelle loro terre di origine.

Il miracolo economico italiano inizio con la costruzione delle case che gli emigrati iniziarono a costruirsi in Italia, incrementando l’edilizia e l’artigianato, non i politici e qui quattro cagoni con la cravatta di allora e tanto meno le bandiere rosse e neppure le innumerevoli Madonne portate in Processione in giro per il bel Paese.

Tutto questo fu possibile solo grazie al lavoro Italiano nel Mondo.

Furono gli emigranti a gettare le fondamenta del miracolo economico europeo, lo stesso vale anche e soprattutto per la Germania.

Gli Italiani in Germania, non solo ricostruirono le strade, le fabbriche e le case, ma nel loro tempo libero; aiutai dalle volenterose donne Tedesche, ripopolarono pure tutta l’intera fottuta Repubblica Federale..  

La mia esistenza di bambino, fini in modo brusco e senza preavviso un bel mattino d’estate, quando mio zio materno che lavorava nell’edilizia, mi venne a prendere per portarmi con sé in cantiere a lavorare.

Avevo quattrodici anni e avevo appena terminato un triennio di preparazione commerciale e computisteria, partite doppie e semplice ragioneria, stenografia e cagate varie.

Qualche cretino aveva messo in testa a mia madre che ero troppo selvaggio per le discipline scolastiche e così per non lasciarmi proprio con la quinta elementare m’iscrissero a una scuola d’orientamento commerciale, sperando che mi decidessi a contare bottoni colorati.

Il lavoro in un cantiere edile non era certo quello che faceva per me, ma mi diede la possibilità di guardarmi un po’ da vicino il mondo della tecnica.

Oggi un fatto simile sarebbe catalogato come sfruttamento del lavoro giovanile, ieri, specialmente nelle zone rurali e non solo friulane o italiane, era all’ordine del giorno che a quattordici anni si cominciasse a lavorare.

La ragione che i miei vedevano in me un muratore e non un meccanico, nessuno è riuscito mai a spiegarmelo, a quel tempo non esistevano spiegazioni di sorta, si doveva fare ciò che dicevano i grandi e basta.

Sogni nel cassetto ne avevo tanti, ma tutti nebulosi, nello stesso istante che la mia fanciullezza termino e vidi da vicino i grandi al lavoro; smisi di sognare.

 Li vedevo curvi tutto il giorno, il sotto cocente; li osservavo mettere un mattone sopra l’altro; li vedevo spalare fondamenta di case o a trasportare mattoni e calcestruzzo su per le impalcature delle case in costruzione.

Vedevo le loro facce sudate e a volte ascoltavo com’erano umiliati da dei padroni senza scrupoli, li vedevo lavorare anche se ammalati con il sole o sotto la pioggia o con le mani fasciate per le ferite e infortuni sul lavoro e giurai a me stesso, che non sarei mai finito così.

In quegli anni non conoscevo il mare, non avevo mai visto il mare, sapevo che l’acqua del mare era salta ma non l’avevo mai assaporata.

Il sapore salmastro del mare come il frusciare vento e delle onde mi era sconosciuto, come lo erano i concerti che solo gli Uragani sanno suonare, tra gli alberi e gli scafi delle navi.

A quel tempo non sapevo di mare.

Conoscevo solo quel manesco di mio zio, vedevo lo stato di semi schiavitù degli operai e manovali friulani e sognavo senza sogni, senza saper sognare, senza sapere cosa sognare, sperando solo di crescere alla svelta e di andarmene via lontano. 

In quegli anni e a quel tempo, la gente era ancora mentalmente in uno stato di semi schiavitù, valeva la parola del padrone e di chi giornalmente girava in camicia bianca e cravatta.

In un paese del Friuli la prima persona per ordine d’importanza, era il Parroco, poi c’era il Sindaco e infine, il Maresciallo dei Carabinieri.

I padroni di piccoli negozi, d’imprese edili e gli artigiani, quelli erano una casta a se, che cercavano accuratamente di non pestare i piedi a nessuno dei tre, badando bene a farsi gli affari propri.

La cosa che mi era sempre sembrata strana, era la posizione sociale dei contadini.

Non importava quanti campi uno possedeva, quante mucche uno aveva nella stalla o quanti vigenti possedeva, a quel tempo un contadino, era sempre considerato quasi un inferiore e nella mente di molti, essere tale, era sinonimo d’ignoranza e rozzezza.

Il lavoro nei campi era arduo e in prevalenza manuale.

Nelle grandi famiglie che, tra figli con le rispettive mogli e prole arrivavano facilmente a una ventina di persone e in certi casi sfioravano anche la trentina, regnava il patriarcato nei campi e, il matriarcato in casa.

A quel tempo le grandi famiglie usavano denominare i loro figli secondo i numeri progressivi, conobbi un Primo, come anche un Sesto di un Ottavo, ma conoscevo anche diversi Decimo.

Erano tutti grandi e infaticabili lavoratori e, tutt’altro che servili o paurosi.

Anche mio nonno materno, Luigi era un contadino tutt’altro che pauroso o servile.

Nonno Luigi era un Uomo tutto un pezzo, dritto di schiena, rispettoso degli altri, ma non certo servile.

Lo chiamavano il Grigio per il suo modo di vestirsi, sempre in grigio con giacca e pantaloni e gilè, immancabilmente grigi.

Subito dopo la prima guerra mondiale, il nonno come tanti altri, coltivava la terra dei discendenti del Doge Manin, di Venezia.

La Villa dei Conti Manin a Passariano nel Comune di Codroipo è il tipico esempio delle feudalità e del latifondismo veneziano in Friuli.

Nell’ambito di pochi chilometri quadrati si contano tre contee, con tanto di residenza feudale per gli aristocratici e povere abitazioni per i contadini di allora.

L’unica fonte di riscaldamento invernale, oltre alla cucina con immancabile focolaio friulano a fuoco aperto sotto una grande cappa per il fumo, a quel tempo era la stalla delle mucche, dove le famiglie si riunivano dopo cena durante le lunghe notti invernali. Gli uomini di casa allora intrecciavano nuove gerle o riparavano quelle che avevano e le donne lavoravano a maglia ruvidi e grezzi calzini o maglioni per i loro famigliari o rammendavano indumenti.

Le giovani donne di casa ricamavano pudiche la loro dote e più di un matrimonio, fu intrecciato proprio in quelle stalle durante le fredde notti invernali.

L’antagonismo paesano era una ragione di vita, come lo era tra le varie famiglie di una contea, dove esistevano dei veri e propri clan, ben coltivati e amministrai dai signori Conti che dalla rivalità dei propri contadini, traevano vantaggio e potevano controllare meglio le famiglie in concorrenza tra loro e ricavandone, il maggior profitto possibile.

Nonno Luigi fu il primo a ribellarsi al despotismo padronale dell’aristocrazia di allora.

I vecchi del paese raccontavano in quegli anni che un giorno nonno Luigi ebbe un vivace battibecco con il Conte, i due non trovarono un accordo, su come e con che cosa coltivare un determinato campo. Il Conte voleva seminare una cosa mentre nonno Luigi considerava una altra, la cosa migliore da fare.

A Passariano, i vecchi contadini raccontavano che a un determinato momento, il Conte, dall’alto del suo cavallo ebbe la malaugurata idea di dire a nonno Luigi che doveva assolutamente obbedire come facevano tutti gli altri contadini.

Ricordando al nonno che lei era solo un contadino e non un Conte, quel malaugurato aristocratico, risveglio nel nonno l’orgoglio dei friulani, che senza mezzi termini, mando l’arrogante rampollo all’inferno e pochi giorni dopo lasciò la contea con la sua mucca che tirava il suo piccolo carro agricolo con i suoi pochi attrezzi e pochi mobili che il nonno possedeva.

Su quel carro che in pratica segnò una prima ribellione al latifondismo e padroneggio veneziano in Friuli, c’erano pure un paio di polli e conigli, due pecore e un maiale.

Sul carro, assieme ai sacchi di patate e granturco e alla farina per fare il pane, c’erano i suoi bambini e dietro il carro, la nonna Anna che doveva badare che le pecore e capre legate dietro al carro non si slegassero e scappassero via nei campi.

Non mi è difficile immaginare quel semplice trasloco di allora, lungo la polverosa strada che porta da Passariano a Codroipo.

Il nonno Luigi davanti che segnava il passo a fianco della mucca; la nonna dietro il carro che badava alle pecore e alle capre e teneva d’occhio le sue figlie sul carro sedute tra quelle poche cose che possedevano.

In quell’anno nonno Luigi si prese come mezzadro sei campi da coltivare, le sue capacità erano conosciute e pertanto, non gli fu per niente difficile trovare altra terra da coltivare.

Chissà che pensieri passavano per la testa ai nostri nonni in quei giorni, chissà se sognavano cose che non conoscevano, o se semplicemente speravano in un futuro con meno stenti e mortificazioni.

Senza lavoro e nell’ozio, i nostri vecchi non potevano certo stare, sarebbero morti d’inedia, si sarebbero appassiti come piante nel deserto, sicuramente sognavano un futuro migliore, ma che tipo di avvenire sognavano i nostri nonni se non campi e prati in fiore, coltivati a dovere nella fertile terra friulana?

Che cosa può sognare chi non conosce che il lavoro nei campi e si sente pago guardando il frutto del suo lavoro germogliare dalla terra e lo accudisce mentre cresce e fiorisce e matura quasi dal nulla, esplodendo in una miriade di piante e frutta e colori e profumi?

A cosa può aspirare un Uomo che ammusa la terra dei suoi campi appena arati, che la respira, che s’inebria dell’odore che emana un campo arato e concimato di fresco?

Un Uomo che vive la terra che coltiva come se ne fosse parte integrale di se e che si porta a casa ben impresso nel cuore e nella mente, il verde del granturco, l’odore del fieno e dell’erba appena tagliata, a cosa pensa, cosa sogna se non la Vita!

A cosa aspira un Uomo che stanco dal lavoro dei campi, si ritrova alla sera nella stalla a mungere la sua mucca e a pulire la stalla a darle da bere e a riempire la mangiatoia con nuovo fieno se non alla pace e alla serenità d'animo?

Che cosa pensa un Uomo che si alza al levar del sole, che munge la sua mucca e pulisce la stalla e poi con va nel campi a sgobbare fino al calar del sole se non a salutare il nuovo giorno e il sole nascente?

Sicuramente la vista delle piante dell’uva, colme di grappoli bianche e neri, lo riempie di orgoglio e lo fa sentire vivo e forte mentre I campi di granoturco ancora verde gli danno speranza, ma i campi di grano e i prati di erba sana e florida che testimoniano del suo lavoro, cosa lo inducono a pensare se non alla forza e magnificenza del Creato?

In momenti simili un Uomo teme sicuramente la grandine e scruta con circospetto e sicuramente con apprensione le nuvole nere durante i temporali estivi, in cerca di segni d’imminenti grandine.

Chissà se un Uomo simile pensa a Dio, in qui momenti.

Forse e riconoscente per il buon raccolto e forse, in tacito e tra le lagrime, dopo una grandinata che ha distrutto in pochi minuti tutto il suo lavoro di un’intera stagione piuttosto che un pensiero di ringraziamento manda rabbioso, quattro madonne al cielo.

Chissà, se invece se ne sta solo li, mesto e disorientato e in piedi accanto a sua moglie, troppo stanca, delusa e avvilita e, assieme a lei, guarda esterrefatto nel vuoto, incapace di pensare?

Sicuramente nonna Anna quel pomeriggio d’estate dove un temporale con una grandinata che non dimenticherò mai, distrusse quasi tutto il raccolto dell’uva del suo vicino e una piccola parte del suo, come nonno Luigi non se la sentiva di certo di ringraziare o di mandare pensieri di riconoscenza al Padreterno.

Nonno Luigi stava lì quel pomeriggio dopo il temporale, in piedi accanto a sua moglie in mezzo ai suoi campi guardandosi in giro e lo sentii mormorare un'unica frase: Questo non è giusto, mi sento umiliato e offeso.

»Questa sera reciterò un rosario,« mormoro sommessa nonna Anna.

»Tira giù quattro madonne che è meglio,« bofonchiò nonno Luigi piuttosto amareggiato vedendo che il suo vicino dall’altra parte del canale d’irrigazione,  piangeva sommesso e scoraggiato, appoggiato ad un albero di gelso. 

Quando lavoravano nei campi, li sentivo spesso parlare insieme.

I loro erano discorsi mesti, tranquilli, di poche parole.

Parlavano del loro passato, della loro età, della loro stanchezza e del lavoro che diventava sempre più pesante e arduo da compiere.

La nonna non diceva mai tante cose, annuiva quando era d’accordo, ma sapeva anche puntare i piedi e far valere le sue ragioni.

Nonna Anna, come d’uso nelle vecchie Famiglie friulane rispettosamente dava a suo marito del lei, ma con altrettanto rispetto, quando qualche cosa non le andava a genio, dandogli sempre del lei, lo mandava a quel paese.

Quell’Autunno da qualche parte alla fine degli Anni quaranta quando ormai nonno Luigi aveva settant’anni suonati e nonna Anna lo seguiva a ruota, i due decisero di smettere di lavorare la terra.

La loro salute era ferrea, ma la forza era venuta meno i loro figli e figlie avevano preso strade diverse che quella dei campi e del lavoro agricolo e da soli non ce la facevano più. 

Nonno Luigi si spense all’improvviso una mattina d’Autunno qualche Anno dopo.

La zia che lo accudiva, mi disse che se ne andò così, stando seduto, subito dopo aver fatto la sua colazione mattutina che consisteva in tre bicchieri di grappa e una tazza di Caffè.

Rimase lì, seduto sulla sedia, dritto di schiena come sempre, con il suo ultimo bicchierino di grappa appena svuoto in mano.

La zia mi disse che lo vide posare il bicchierino sul tavolo e lo senti bisbigliare un, »Mandi« sereno e pacato e poi i suoi occhi su questa Terra, si chiusero per sempre.

Il medico chiamato d’urgenza, disse che nonno Luigi si era fermato, come fa un motore, quando ha finito la benzina.

Pochi giorni prima, mi aveva chiesto di accompagnarlo nei campi. Assieme, camminando piano avevamo rifatto a piedi la strada che facevamo quando d’estate andavo ad aiutarlo.

Il mio aiuto allora consisteva ne tirare il corretto a due ruote, dove lui e la nonna caricavano la legna da bruciare nel focolaio della cucina e quel poco di erba che serviva per i loro conigli e gli zucchini e cetrioli che crescevano tra i solchi del granoturco.

La sua ultima mucca era stata venduta già da qualche tempo e il fienile e la stalla erano vuoti, avevano solo i polli e i conigli.

La nonna se ne era andata pochi mesi prima mentre era da una delle sue figlie lontano dal paese.

Nessuno dei suoi figli glielo aveva mai detto, temevano per lui, sapevano che non avrebbe sopportato l’idea, o almeno le sue figlie e figli, credevano di saperlo. 

Quel pomeriggio, quando andammo nei campi, tutta la compagna attorno a noi era in fiore, ma un’ombra di nostalgia, passò sul suo volto quando arrivando a quella che una volta erano i suoi campi dai quali aveva estratto il suo sostentamento, si accorse che erano stai trasformati in un unico grande prato.

I proprietari avevano sradicato anche le due file di gelsi che nonno Luigi aveva piantato nel 1943, quando la Guerra lasciò il Friuli e si era spostata minacciosa e implacabile verso Nord.

Pensoso nonno Luigi si sedette sull’orlo del canale d’irrigazione come faceva quando irrigava i campi e mi fece cenno di sedermi accanto a lui.

Passo una mano sull’erba quasi accarezzandola, poi si prese una zolla di terra e la annusò.

»Questo sarà un buon anno Franco, la terra respira,« mi disse guardando lontano.

Nonno Luigi stava lì seduto in quel particolare punto del canale da dove poteva controllare l’acqua per l’irrigazione e guardava i campi che ormai nessuno lavorava più.

Nonno Luigi in quei momenti che ancor oggi mi sembrano eterni stava guardando nel suo passato, di questo, ne sono sicuro.

C`era qualche cosa di mistico stampato sul suo marcato volto che sembrava scolpito nel marmo e guardandolo io non osavo ne muovermi ne parlare.

Sentivo che non potevo che non dovevo parlare, pertanto me ne rimasi lì zitto e tranquillo e quasi timoroso di respirare.

Sentivo che in quel momento nonno Luigi stava dicendo addio alla sua terra che con tanta dedizione e passione aveva per tanti anni lavorato, così rimasi li seduto accanto lui, non dissi niente neanche quando lui cerco la mia mano e la rinchiuse tra le sue.

Rimanemmo seduti sull’orlo del canale d’irrigazione ancora per un poco, finche tutto un tratto si scosse e lasciando la mia mano che per tutti qui momenti, aveva tenuto nella sua, appoggiandosi sulla mia spalla in silenzio si alzo.

Il Grigio come chiamavano nonno Luigi, incamminò lento e maestoso verso casa ed io lo segui camminandogli accanto senza parlare.

Strada facendo volle entrare in un’osteria, dove altri suoi coetanei sedevano e mi disse di bere un mezzo bicchiere di Tocai assieme a lui.

Bevvi il mio mezzo bicchiere di vino, lui mi guardo bere e poi mi accompagno alla porta.

»Non avere mai paura di nulla Franco, non importa dove tu vada o cosa farai, non avere mai paura, non ti succederà mai nulla.«

Quella furono le ultime parole che sentii dal nonno Luigi, la sua ultima immagine nella mia mente e quella dell’Uomo che chiamavano il Grigio e che era mio nonno, che fermo davanti alla porta della frasca dei Delnin uin via dei Mulini;  con un bicchiere di Tocai i mano, mi salutava.

Nonno Luigi si spense pochi giorni dopo, subito dopo la colazione e dopo avere bevuto il suo ultimo grappino. 

Nonno Luigi deve avermi trasmesso la sua tenacia, la sua percezione del dovere, il suo senso di rispetto del prossimo, la sua sobrietà e la sua indistruttibile fermezza di carattere e indomabile voglia di libertà.

Soprattutto, colui che chiamavano il Grigio, deve avermi trasmesso la sua insofferenza verso ogni sorta di soprusi e ingiustizie.

Nonno Luigi non sopportava i fanfaroni, i venditori di vento gli ingannatori e ciarlatani vari; li considerava dei parassiti e con il tempo la vermiglia parassitaria paesana, aveva imparato a stargli alla larga.

Nonno Luigi mi aveva sicuramente trasmesso la sua avversione verso le arroganze e le angherie e la cattiveria d’animo. La sua insofferenza verso chi crede di avere il monopolio sullo sfruttamento degli altri era quasi proverbiale e gli spara cazzate, badavano bene a non pestargli i piedi,

La mia intolleranza e antipatia contro chi crede di poter decidere e pontificare e sottomettere e soggiogare a suo piacimento ed esclusivamente per propri interessi il suo prossimo; non vengono che da lui e da nessun altro. 

La voglia di andare lontano, di girare e vedere il mondo, di conoscere e apprendere tante nuove cose da altra Gente, di fare e capire altri “fare”; tutto questo invece, lo devo avere ereditato dal mio nonno paterno, Pasquale.

Forse, questa è la ragione che una forza irresistibile, indomabile, quasi selvaggia, mi spinse sempre ad andare lontano.

A non fermarmi mai, anche quando credevo di volerlo fare, di avere raggiunto il mio Godot.

Allora in quei momenti il mio Godot come un giocattolo usato, non mi piaceva più e subito sentivo nostalgia di un altro Godot, di un altro orizzonte da raggiungere, di un'altra montagna da scalere.

Ben sapendo che dietro l’onda ne avrei trovata un'altra, che dietro l’orizzonte c’è n’era un altro e che dietro a ogni montagna da scalare ne avrei trovata un'altra simile; sentivo che dovevo andare e niente, manco le cose più care del momento, riuscivano a trattenermi, a fermarmi, a indurmi a restare.

Forse, è proprio per questo, che divenni un Uomo di Mare.

Al contrario di nonno Luigi, il classico tenace e costante contadino friulano che tutta la sua lunga vita l’aveva vissuta in un raggio di cinque chilometri; nonno Pasquale era sempre stato un’errante.

Nonno Pasquale, ormai aveva i suoi anni, ed era diventato tranquillo, quasi casalingo.

L’anno della mia nascita, accanto alla porta di casa aveva piantato una vite di uva fragola che due anni dopo, dava già i suoi frutti, i suoi piccoli grappoli d’uva. 

Nonno Pasquale trovava sempre il tempo di giocare con me. Paziente, mi costruiva allora piccoli giocattoli di carta o di legno che poi con orgoglio mostravo agli altri bambini del Primo Canale.

Spesso mi portava con sé nei campi, quando le bacche dei gelsi erano mature o quando d’autunno lungo il torrente Corno, raccoglieva la legna da bruciare nella grande stufa di mattoni, dove la nonna Maria cucinava.

Un tempo faceva il commesso viaggiatore, aveva passato un periodo in Francia e infine era diventato usciere nella Pretura del Paese.

Mia madre e la nonna Maria raccontavano che quando il nonno si alzava al mattino, era sempre di cattivo umore.

Con caparbio pragmatismo e perseveranza, ogni mattina cercava qualche cosa che secondo lui non era al posto giusto, fosse stato un granello di polvere sul tavolo della grande cucina, nonno Pasquale lo avrebbe trovato.

Le sue paternali e ramanzine alle Donne di casa, come lui definiva, la nonna Maria, le sue due nuore e sua figlia, erano allora garantite.

Mia madre, una volta mi raccontò che pochi giorni prima che anche lui si spegnesse, le “Donne di casa” decisero di metterlo veramente alla prova.

Tutte assieme quel mattino misero a puntino la cucina da farla sembrare nuova.

Nonno Pasquale scese le scale brontolando come sempre, si presentò guardandosi guardingo la cucina tirata a lustro, mentre le “Donne di casa” lo accoglievano con un raggiante sorriso di sfida.

Le “Donne di casa” sicure della loro vittoria sul nonno, giacché quello, dopo un paio di silenziosi e circospetti giri per la cucina, non aveva trovato niente da reclamare, cominciarono a rallegrarsi, a congratularsi tra loro, sicure di averlo zittito.

Ja Scheiße, si vede che ancora non conoscevano nonno Pasquale, che non trovando proprio niente su cui imperniare il suo distruttivo sermone mattutino, aprì uno dei cassetti della credenza e ne estrasse la scatola dove c’erano gli utensili per cucire.

Con voce angelica nonno Pasquale spiegò alle esterrefatte ”Donne di casa” che era perfettamente inutile che loro pulissero quasi in modo sterile la cucina.

Ricordo loro che tra non molto avrebbero cominciato a preparare il pranzo e che pertanto non era il caso di esagerare con le pulizie mattutine.

Spiegò loro che la pulizia era si necessaria, ma la troppa pulizia era un indicatore di psicosi del pulito che, se portata avanti, poteva anche rovinare la quiete famigliare.

Indicando poi la scatola con i bottoni, disse alle stupefatte “Donne di casa”, che ultimamente aveva notato un indescrivibile disordine tra i bottoni i rotoli di filo e gli aghi da cucire e così, quella mattina le “Donne di casa” dovettero sorbirsi la sua solita ramanzina e lezione su come tenere in ordine una scatola di utensili da cucire, i gomitoli di lana e i ferri per lavorare a maglia.

Quando mia madre una sera d’estate, con i vicini, seduti al fresco della sera davanti alla porta della nostra nuova casa, racconto questo nostro aneddoto famigliare, le chiese come avesse reagito la nonna Maria che in quanto a franchezza di parole non era certo di meno di suo marito.

»Meglio di no,« mi ripose ridendo.

Anche se negli ultimi giorni della sua Vita, nonno Pasquale si era trasformato in un proprio e vero tiranno, irascibile e facilmente irritabile, quasi despotico, sono sicuro che sia andato, magari brontolando, diritto in Paradiso.

Quel pomeriggio quando lo colse un ictus cerebrale, che in poche ore lo finì, noi due eravamo soli in cucina: io facevo i compiti di casa e lui stava seduto accanto alla stufa di mattoni vicino alla finestra.

Frequentavo da pochi giorni la prima elementare e mentre seduto al grande tavolo della cucina, con una matita imparavo a fare le aste in un quaderno a quadretti, nonno Pasquale silenzioso mi osservava.

Lo sentii chiamare il mio nome e lo vidi cadere, battere il capo sul pavimento e rimare li, immobile.

Spaventato, cominciai a gridare e a chiamare mia madre.

Accorsero tutti e mentre lo sollevavano dal pavimento e lo portavano in camera sua, e mentre mio padre inforcò la bicicletta e corse a chiamare il vecchio Dr. Guerra, il grande amico del nonno e medico di famiglia, io comincia a capire che la Vita non era fatta solo di fiabe e giochi.

Quel pomeriggio stetti solo a guardare, da quando frequentavo le lezioni di Catechismo dal Parroco, sapevo che a un moribondo si dà l’estrema unzione, così che, anche senza essere cosciente ed essere in grado di confessarsi; può egualmente andare in Paradiso.

Senza chiedere il permesso a nessuno andai subito nella vicina Canonica e dissi al Parroco di venire a dare l’estrema unzione al nonno morente.

Il nonno Pasquale non era certo un uomo di Chiesa, come anche nonno Luigi non lo era, la loro avversione per la Chiesa e i Preti, non era mancanza di rispetto, bensì semplice rabbia.

Forse la loro rabbia era dovuta al disconforto di non avere la possibilità di aver potuto far meglio e di non aver avuto nemmeno, la possibilità di poterlo fare.

La Chiesa benediva e annunciava la Vita eterna e predicava, invece che cacciare i farisei dal tempio. La pazienza e costanza dei semplici di Spirito che oltre a quelle virtù, non possedevano altro che la remissività dei poveri, non poteva che portare al diniego totale di chi, nel nome di Dio, è solo in grado di scagliare anatemi e pontificare proibizioni, promettendo la Vita eterna a chi stenta già vivere su questa Terra.

La loro avversione per la Chiesa e la rabbia verso i preti venivano proprio da questo stato di cose e non di certo perché a loro mancasse un certo qual senso di compassione, di umanità, o di carità cristiana.

Il Parroco, corese subito al capezzale del nonno che spirò pochi minuti dopo aver ricevuto l’estrema unzione senza riprendere conoscenza, e forse è meglio così, infatti, sicuramente avrebbe manato via in malo modo il nostro buon Parroco rifiutando ogni assistenza spirituale e sarebbe finito diritto in Purgatorio.

Proprio per questo sono convinto che nonno Pasquale è anche lui in Paradiso, non ha ripreso conoscenza e non ha visto il prete.

L’inferno non esiste che su questa Terra e tutto questo, per un solo, unico morso in una mela.

Il gioco con Lucifero è affascinante, perde sempre, ma nonostante ciò, non ne vuole proprio saperne di smetterla di fare il rompiballe, mah, che si arrangi … 

Negli anni che vennero dopo, capii che per le varie nomenklature, politiche o religiose che fossero, la Gente non era altro che merce da sfruttare e da pagare poco.

Crebbi in un mondo padronale, dove esistevano solo padroni e servi, c’era chi comandava e chi doveva obbedire, chi aveva un’opinione e chi non era dato di averla.

Il Comunismo in Italia attecchì tra i poveri e gli sventurati, in uno Stato con una Chiesa che predicava, benedicendo Urbi e Orbi, solo di punizioni e di mortificazioni e di timore di Dio, come se il Padreterno fosse una bestia feroce.

La Chiesa Cattolica non seppe insegnare ai suoi Fedeli ad amare Dio, bensì a temerlo, quasi a odiarlo.

Con il tempo, gli uomini cominciarono a distanziarsi, prima dalla Chiesa e poi da Dio e si volsero e cominciarono a credere a coloro che, con Bandiere rosse al vento, promettevano il Paradiso in terra.

La forza del Comunismo in Italia è l’avversione totale della Gente verso una religione totalitaria, fatta solo di divieti e ipocrisie.

Crebbi in un mondo simile e mentre i miei amici andavano al fiume o al mare, io trasportavo senza paga, mattoni e calcestruzzo ai muratori sei giorni la settimana, e mi ritenevo fortunato, quando non prendevo qualche scappellotto.

Un giorno ne ebbi abbastanza, a diciotto anni, dopo aver frequentato un corso duennale per meccanici aggiustatori, a casa feci il diavolo a quattro e in sostanza costrinsi i miei a lasciarmi emigrare in Germania.

Finalmente libero dei gioghi feudatari di una Regione in perenne stato di schiavitù, andai in Germania come aiuto manovale di Miniera. 

Andai per mare quasi per curiosità, mi arruolai su di un peschereccio d’altura di 800 tonnellate che pescava oltre il circolo polare. Imparai a sgozzare arringhe e merluzzi, ma soprattutto, non appena vidi una Sala Macchine, seppi subito che quella era la mia strada.

Quante arringhe o merluzzi immerso fino alle ginocchia nel pesce sgozzai per potermi pagare la Scuola tecnico navale o quanto sudore spansi sui motori Diesel di allora, non lo so, certo è, a ventott’anni ero l’unico straniero Direttore di Macchina, in tutta la fottuta Marina Mercantile Tedesca e indubbiamente, uno dei più giovani.

I miei amici e compagni di allora non esistono più che nel profondo del mio passato, molti di loro son diventati Notai, Avvocati, un mio caro amico di sempre è un Medico, una altro Generale degli Alpini, molti sono emigrati e chissà dove sono, altri non ci sono più, altri ancora si sono appassiti in Paese.

A volte non so cosa pensare, non credo che ritornerò nel paese degli asini, non solo in paese, ma nemmeno in Italia, non mi sentirei più a mio agio, questa Italia mi è aliena.

L’Italia è una Nazione che distrugge la sua Gente, che  la rende schiava di un sistema malato e sbagliato, disumano e crudele, basato sul fondamentalismo religioso dei divieti, sulla corruzione politica e sul nepotismo.

In Italia conta il chi conosci; il chi sei, ha più valore di, cosa sai fare e così; mentre la nomenklatura italiana si mantiene scegliendosi i suoi Bravi e soggiogando e umiliando i vari, Renzo e Lucia Nazionali, impedendo loro in tutti i modi di prosperare e crescere, la Nazione invecchia e muore. 

Dove abito ora, davanti casa, c’è un albero magnifico.

Lo piantammo un giorno del 1975 quando, tra una Nave e l’altra, mi trovavo di passaggio alla Casa del Marinaio, siamo cresciuti insieme, l’albero ed io, perché dovrei andarmene?

Fine.

Bremen, Settembre 2008-2013




































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