Una delle impressioni di allora che sono ancora
nitide nella mia mente e che scorre davanti ai miei occhi come in un film è
molto indicativa e mi accompagna ovunque io vada.
Quel giorno, in Italia si scriveva il giorno 6 del mese di Gennaio dell’Anno
1940 dopo la nascita di Junior il Figlio del Boss che, con le sue stupidaggini
e dicerie, sulla Terra ne combino di tutti i colori..
Quel dì di pomeriggio, poco prima della mia nascita
alle 16:45, ero seduto sotto un grande albero che si trova sopra una collina
tutta verde e in fiore insieme ad altri tre puri spiriti e tranquilli e sereni discutevamo
della mia prossima rinascita tra i mortali.
Non avevo mica tanta voglia di ritornare sulla
Terra tra quei casinisti di umani. Quegli esseri così pasticcioni e imperfetti
mi erano stati da sempre sull’anima e, da sempre, non vedevo la ragione della
loro esistenza.
Quelli là sulla Terra mi erano talmente antipatici
che speravo veramente che, come promesso, il Boss quanto prima terminasse
quell’insulso esperimento e che tutto ritornasse come prima, senza avere tutta
quella mandria infida di esseri imperfettii a cui badare.
L’Universo in sé poi non aveva nessun senso
pratico e spesso mi domandavo che cosa era venuto in mente al Boss per creare
tutto quel casino.
A prescindere da tutto questo, ero anche del
parere che un esperimento simile non sarebbe mai dovuto succedere ed ero pure
convinto che nemmeno il Boss; per quanto onnipotente fosse; tanto per vedere
che cosa succede; avesse il diritto di fare tutto quello che è capace di fare.
Infatti; ero sicuro che la creazione dell’Uomo,
un’inutile creatura senza senso, non fosse altro che un bel buco nell’acqua,.
Quando poi, vedendo che quel cretino di Adamo,
invece di ammirare il Paradiso sulla Terra creato apposta per lui, si annoiava
e non faceva che spararsi una sega dietro l’altra e che il Boss gli tolse una
costola e da quella gli modellò una compagna perché gli tenesse un po’ di
compagnia, non seppi più cosa pensare.
Già prima della creazione di quei due, quando cioè
il Boss ci rivelò le sue intenzioni di creare la luce, il cielo, l’universo, la
terra e di popolarla anche con una ridicola specie che si sarebbe creduta
superiore a tutte le altre, cioè, l’homo sapiens, la cosa non mi era piaciuta.
Non che non mi fidassi o mettessi in discussione le decisioni del Boss, non era
questo il mio dilemma, piuttosto il mio problema era Lucifero e i suoi amici.
In linea di massima avrei potuto, anche se quello
non faceva che massaggiarsi il pisellino dalla mattina alla sera, pure essere
d’accordo con Adamo. Infatti, quando l’homo sapiens si annoia o si fa una sega
o incomincia a rompere i coglioni al prossimo o a tarda età, si beve una birra
o due. Non era questo il mio problema: fu il diabolico sorriso di Lucifero
quando si accorse dell’apparizione di quella rompiballe di Eva, che mi diede da
pensare.
Il mio collega Lucifero non mi era mai piaciuto
più di tanto.
L’arroganza di Lucifero era diventata quasi
insopportabile.
Lui si riteneva e si credeva ancora più
onnipotente del Boss stesso e da più parti, mi era anche stato riferito che
Lucifero tramava per rimuoverlo dal trono.
Allora, come d'altronde oggi, non mi è ancora del
tutto chiaro come cazzo Lucifero voglia arrivare a distruggere l’Onnipotente; mi
sembra proprio che la sua superbia lo abbia rincretinito del tutto e la sua
sfrontatezza lo abbia reso completamente cieco.
Spero solo che Lucifero la smetta, altrimenti il
Boss un giorno o l’altro s’incavola di brutto e lo stermina insieme a tutta la
sua gang d’illusi.
Tra le tante cose che ancora non ho capito, è come
mai il Boss si metta tanti grattacapi in testa creando non solo un essere come
Lucifero che trama per distruggerlo ma, come se ciò non bastasse, si regala
pure esseri scadenti e incompleti come Adamo e quella scema di sua compagna
Eva.
Dove diavolo il Boss veda poi il senso di aver
creato un tizio che sta distruggendo il suo creato, non l’ho proprio capito.
Durante le mie passate scorribande sul Pianeta
Terra ne avevo viste di tutti i colori.
Avevo notato che i discendenti di Adamo per cose
materiali, cui loro davano un immenso valore, erano pronti a uccidersi.
Avevo visto che gli uomini, per l’effimero sorriso
di una delle discendenti di Eva, erano pure così scemi da scatenare delle
guerre e scannarsi a vicenda, come se la loro diletta fosse l’unica troia della
terra.
Avevo visto e notato che alcuni esseri umani per
sentirsi padroni del mondo schiavizzavo altri loro simili e che per questo
erano pure pronti a uccidere e a sterminare intere popolazioni.
Mi ero anche accorto che una sola di queste
orrende creature, era in grado di distruggere l’intera umanità e il pianeta
Terra.
Veramente, l’Onnipotente a volte non lo capisco
proprio, forse aveva creato tutto questo per tenerci occupati, mah!
Forse aveva creato il creato per svagare un po’
Lucifero e la sua banda di squilibrati e per far loro capire che era meglio per
loro se la smettevano di fare i bellimbusti.
Veramente non saprei dirlo.
Comunque sia, fatto è che il Boss avesse creato Lucifero, ben
sapendo che quello avrebbe tramato contro di lui e questo, anche perché non
avevo esempi pratici o esperienze passate cui attingere, non riuscivo proprio a
capirlo.
Perché un teatro di marionette simile?
Questa volta però il Boss e Lucifero non
c’entravano per niente: Questa volta si trattava della mia reticenza a
ritornare tra quelle ridicole creature che il Boss, amorevolmente e con tanta
benevolenza, come se si trattasse di un cagnolino da passeggio e non di un
essere imperfetto, crudele, falso e codardo chiamava: Homo sapiens.
Alla fine però quando i miei tre compagni e amici
con i quali, ero seduto sotto il grande albero sulla collina, mi promisero che
sarebbero venuti a farmi visita, accettai la decisone del Boss di rimandarmi
sulla Terra e mi decisi di rinascere.
Nascendo liberai dai suoi travagli anche quella
povera donna che, vista la mia reticenza di voler nascere, stava per tirare le
cuoia.
Non saprei dirlo con sicurezza, il Boss un giorno
me lo dirà, ma a pensarci bene, quella di rinascere, salvando così la vita di
quella povera donna e liberarla dalle sue pene; credo sia stata una delle mie
poche, veramente buone azioni sulla Terra.
»Se questa povera donna che ora è mia madre si
possa veramente ritenere liberata da tutte le pene terrestri o se il futuro, a
causa della mia rinascita, non le riservi qualche cosa di peggio, questo è
ancora da vedersi. Comunque sia, questa è l’ultima volta che faccio una cazzata
simile.« Mi promisi, sorridendo sornione, qualche secondo prima di iniziare il mio nuovo cammino su
questa ridicola Terra e il buio dei nascituri mi avvolgesse rendendomi
inconscio del mio essere.
Finalmente, dopo tutte le paure e speranze del
momento, con il mio grido primordiale, nella fredda stanza al terzo piano della
Casa di Via Canale Primo numero 4, ritornò la pace.
E così, mentre la signora Giordano, l’ostetrica
del paese, dopo avermi quasi a mo’ di ben venuto, sculacciato, girato e
rigirato, compiacente con me, contemplava il capolavoro di mia madre, io mi
addormentai avvolto in una coperta celeste con i bordi di seta tinta di
azzurro.
Il mondo dei mortali dunque mi annoverava di nuovo
tra le sue file e la fregatura era tutta mia.
Dei primi giorni e mesi di questa mia vita terrena
non ci sono molte cose da dire, quasi niente… non è che mi ricordi proprio tutto, ma di tutta quella banda di imbecilli
che mi guardavano sorridendo facendo stupidi sberleffi manco fossi una scimmia
e, parlando in modo alquanto ridicolo, questo sì, di loro mi ricordo, eccome che mi
ricordo.
Della zia Jolanda, la più giovane sorella di mia
madre che un pomeriggio di primavera quando avevo si e no due o tre mesi, mi
venne a trovare e prima di ritornarsene a casa mi salutò nel cortile, mi ricordo
pure.
Come mi ricordo della donna che, come appresi più
tardi, era mia nonna Maria.
Mi ricordo molto bene della nonna Maria che,
seduta su di una sedia fuori la porta di casa, sotto la pianta di uva fragola
che nonno Pasquale aveva pianto subito dopo la mia nascita, con me in grembo
stava lì muta e seria e guardava lontano.
La nonna Maria se ne stava lì seduta nel vicolo
cieco di Via Canale Primo e muta, mi dondolava silenziosa. A volte mi
canticchiava la filastrocca del sor Contento, a volte me la raccontava ed io
allora mi addormentavo.
Della mia ferma volontà di rompere tutti di argini
e andarmene via al più presto possibile, che già allora si annidava in me, mi
ricordo pure molto bene.
Volevo andarmene, scappare via lontano, oltre quel
budello di vicolo cieco, che limitava i miei orizzonti.
Volevo andarmene via lontano da tutti quelli che
mi correvano dietro ogni qualvolta che, a quattro zampe prima, e sulle mie
gambette malferme subito dopo, cercavo di andare oltre quel piccolo orizzonte e
guardavo con disdegno, quasi lo volessi abbattere, quell’alto muro di sassi,
eretto dall’altra parte del cortile che m’impediva di guardare lontano.
Già da piccino sdegnavo ogni forma di restrizione
e questo, naturalmente, non prometteva niente di buono.
Il Boss aveva predisposto che io nascessi in tempo
di guerra.
Sì, c’era una guerra e la gente si accoppava e
moriva come le mosche.
L’intera umanità, come venni a sapere più tardi,
si stava distruggendo a causa di un paio di idioti tedeschi, giapponesi e italiani.
Questi prototipi di homo sapiens si erano
addirittura messi in testa di governare il mondo e per poterlo fare avevano
cominciato a togliere di mezzo chiunque non fosse d’accordo con loro.
I tanto amati e benvisti e benvoluti discendenti
di Adamo e di quella scema di Eva avevano, dunque, ripreso a scannarsi senza
nemmeno accorgersi che, in fondo, tutte queste carneficine, tutto questo dolore
e morti erano completamente inutili e crudelmente prive di ogni senso.
Il vecchio Pietro davanti alla porta di casa mia
ora aveva sicuramente il suo bel daffare. Non che non ci fosse abituato, ma
neanche lui che aveva seguito Junior sulla Terra non riusciva a capire il senso
di tutto quest’orgia di sangue e di morte e spreco di vite umane.
Con Junior era stato abituato a vedere tante cose,
e spesso gli aveva chiesto di che cazzo stesse parlando. Ora però, dopo quasi
duemila anni terreni, anche il vecchio Pietro vedeva che sulla Terra non era
cambiato nulla e che l’homo sapiens continuava a scannarsi come prima la venuta
di Junior, solo he ora lo faceva con più vigore, metodo e determinazione.
La Madre di Junior, quando un giorno nel Tempio
Lui si era messo a tirar di filosofia con quattro vecchi rimbambiti che si
credevano sapienti, poi lo aveva ammonito a non dire scemenze ma, come tutti i
Figli di Padri onnipotenti, anche Junior non volle saperne di ascoltar ragione
e cominciò a rompere i coglioni a tutti, specialmente agli ebrei che tutt’oggi
sono convinti di essere il popolo prediletto dal Boss.
Nel corso della sua corta parentesi terrestre,
Junior ne disse di tutti i colori, ma ne disse tante di quelle che un giorno i
palestinesi scocciati di vederselo in continuazione tra i piedi chiesero ai
romani di occuparsi del caso.
I Romani liberarono gli ebrei dall’impiccio, lo fecero
sicuramente in modo alquanto rozzo e villano e del tutto esagerato, ma lo
fecero.
Lo fecero per accattivarsi il popolo della
Galilea, della Palestina della Giudea e altre piccole frazioni e accampamenti
indigeni ora chiamati Kibbutz e non certo perché consideravano Junior un nemico
pericoloso da combattere.
La loro, fu un’azione diplomatica più che un
intervento giuridico e punitivo contro un dissidente, infatti, furono gli ebrei
a volere che Junior fosse tolto di mezzo, non i Romani.
Furono davvero gli ebrei a decidere questo?
Dopo la partenza di Junior dalla Terra le cose non
migliorarono, anzi peggiorarono, la gente cominciò a scannarsi peggio di prima
ma lo facevano nel nome del Boss e questo era veramente un brutto guaio.
Ancora non ho capito, come tanto meno Pietro non
ha ancora capito bene cosa stia succedendo.
La vera ragione di tutto questo scempio, tutto il
sangue versato e quello che ancora sarà da versare, tutte le inutili
sofferenze, le ingiustizie, le morti a cosa servono, per quale ragione, il Boss
ha creato tutto questo?
Per l’ennesima volta però, in tutto questo, vidi
lo zampino di Lucifero e i suoi compagni, per il momento però, mi limitai a
registrare il fatto e cominciai a crescere, spedito e veloce.
Neppure la nonna Maria che aveva due figli in
guerra, come tutte le nonne e mamme del mondo, capiva la ragione di questo
scempio di vite umane. Stava sempre seduta per delle ore con me in braccio
sotto la pianta dell’uva che nonno Pasquale aveva piantato alla mia nascita
sperando che la guerra finisse presto e che i suoi figli tornassero presto
incolumi a casa.
Quasi tutti gli uomini del Primo Canale erano da
qualche parte in guerra contro qualcun altro. I contendenti però, avevano una
cosa in comune: nessuno dei due sapeva esattamente del perché cercassero di
accopparsi a vicenda.
A quel tempo mio padre, veterano della guerra
civile spagnola, era stato, quale primogenito, esonerato dal servizio militare
e si trovava in Germania, dalle parti di Hannover, a costruire Panzer per lo
zio Adolfo.
Il primo soldato tedesco, lo vidi un giorno quando
avevo due anni. A quel tempo non sapevo che cosa fosse un soldato, non sapevo
cosa fosse la guerra e tanto meno cosa fosse la Germania. Ricordo solo che
quando quell’uomo mi prese in braccio aveva le lacrime agli occhi, come anche
le avevano i suoi compagni.
Mi ricordo che non provai paura e che, sorridendo,
gli accarezzai la faccia e baciai via le sue lacrime.
I soldati si trovavano al seguito del generale
Kesserling che credeva di poter conquistare il mondo e, come più tardi venni a
sapere, anche mio padre da Hannover, si trovava sulla via del ritorno verso
casa
La prima volta che scappai da casa avevo tre anni.
Volevo andare a vedere qualche cosa che ancora non conoscevo né avevo mai visto prima: Volevo andare a vedere un treno.
Volevo andare a vedere qualche cosa che ancora non conoscevo né avevo mai visto prima: Volevo andare a vedere un treno.
Il bello è che non sapevo che cos’era un treno,
non ne avevo mai visto uno e tanto meno sapevo, dove si trova la ferrovia!
Nonostante questo, un bel mattino me ne andai.
Kesserling aveva ordinato la ritirata alle sue
truppe e le strade erano intasate da lunghe colonne militari che andavano
spedite verso Nord.
L’armata Kesserling era in ritirata seguita da
nuvoli di Spitfire inglesi e Mustang americani.
Uno di questi piloti di Spitfire doveva essere
stato cieco o forse, potrebbe veramente darsi che una donna che con le sue due
figlie raccoglieva per cena insalata selvaggia nei campi, dall’alto gli possa
essere sembrata una pattuglia di soldati nemici.
Fatto sta che l’eroe delle nuvole, scorgendo
dall’alto quella donna e le sue due figlie, le scambiò per dei soldati nemici.
L’eroe fece un elegante volteggio e con le sue
mitragliatrici falciò via un’intera famiglia.
Anche i baldi eroi partigiani a quel tempo
volevano avere la loro parte di gloria.
Decisi a liberare la nazione dall’odiato nemico se
non proprio intenzionati a vincere la guerra nei bidoni della spazzatura, come
un loro sommo compagno aveva fatto a Roma, pensarono bene di tendere tra le
case di Viale Duodo a Codroipo che per via del vecchio mercato del bestiame,
famoso e ben conosciuto in tutto il Friuli è detto anche il paese degli asini;
un agguato alle truppe tedesche che si stavano ritirando verso Nord.
Le donne di Viale Duodo però, erano di tutt’altra
opinione e, armate di scope e pentole e mattarelli, presero a botte i baldi
eroi della resistenza e li fecero scappare via piuttosto malconci, ma salvarono,
così facendo, le loro case, la vita a noi tutti e probabilmente l’intero paese
dalla sicura distruzione.
Ciò che mi successe quel giorno non lo
dimenticherò mai più.
Senza sapere il perché o come riuscii
inspiegabilmente a sfuggire agli occhi di mia madre, della nonna Maria e del
nonno Pasquale che non mi perdevano d’occhio un singolo istante, con le mie
gambette corte m’incamminai lungo il Primo Canale per andare in cerca di un
treno che non avevo mai visto e una strada ferrata che non sapevo né cos’era né
tanto meno, figuriamoci poi, dov’era.
Sapevo cosa mi stava succedendo, ne ero
perfettamente cosciente e non provavo paura, infatti, non ero solo.
Una decina di anni più tardi quando raccontai il
fatto a mia madre quella sorrise e relegò il tutto nel mondo e nelle
fantasticherie dei bambini e non ne volle più parlarne.
Fatto è che quella mattina, eludendo la
sorveglianza dei miei, tutt’un tratto, mi trovai in compagnia di una
moltitudine di persone.
Erano donne, bambini, uomini e giovani che
silenziosi, camminavano spediti.
Una delle donne, sorridendomi, mi prese i braccio
e mi portò con sé. Furono loro a portarmi in pochissimo tempo sul ciglio della
ferrovia, non le mie gambette!
Infatti, come avrei potuto in così poco tempo
percorrere i due chilometri che separavano la ferrovia dal Primo Canale sulla
strada che porta a Beano e da solo, salire la ripida scarpata che porta ai
binari?
Nessuno mi poteva vedere, altrimenti qualcuno del
paese mi avrebbe subito fermato e ricondotto a casa.
Furono loro a portarmi lontano, non certo le mie
gambette malferme.
Le donne con i bambini per mano, gli uomini dalla
marcante faccia serena come scolpita nel marmo con falci e badili sulla spalla,
i giovani che con passo sicuro davanti a noi con attrezzi da lavoro in mano…
furono loro a portarmi alla ferrovia e non le gambette malferme di un bambino
di due Anni di età
Le donne, i bambini, gli uomini, i giovani erano
in tanti ed erano sicuri di loro.
»Non avere mai paura di dove andrai, tu non devi
mai avere paura, mai, ovunque tu vada sii sempre sicuro di te, non ti succederà
mai niente!« Mi disse sorridendo una delle donne prima di depositarmi sul
sentiero lungo la strada ferrata che si snoda verso Nord, verso e oltre i
limiti dei monti lontani.
Gli altri non parlavano, passandomi accanto mi
guardavano e sorridevano e continuavano la loro strada tranquilli e fieri e,
come in una lunga processione, camminavano spediti per la loro via ed io mi
addormentai accanto ai binari.
Fu lì che mia madre quasi impazzita dalla paura mi
trovò. Con altre donne del paese era venuta a cercarmi e mi trovò, addormentato
lungo i binari a due chilometri da casa.
E mentre le altre donne sgridavano dei ferrovieri
che lavoravano dall’altra parte della strada ferrata a pochi metri di distanza
da me, colpevoli di non avermi notato, mia madre piangendo e ridendo allo
stesso tempo mi prese in braccio.
Subito dopo passò un lungo treno carico di giovani
che salutavano e agitavano i loro elmetti. Li salutai sorridendo a mia volta e,
chiedendomi come mai mia madre piangesse, mi addormentai tra le sue braccia
mentre lei, poverina, piangeva ancora e non capiva cosa era veramente successo.
Mia madre non ha mai voluto parlare di questo
fatto ma quando un giorno le chiesi come mai fosse venuta direttamente proprio
là, su quel tratto di ferrovia, a destra del cavalcavia sulla strada che porta
a Beano, mi guardò in modo strano, quasi con timore ma non mi seppe rispondere.
Molte volte, quando da ragazzo irrequieto e
impaziente di crescere e di andarmene lontano, nei lungi pomeriggi estivi
girovagavo per i campi, ritornai in quel tratto di ferrovia.
Risalendo
quella ripida scarpata, con un pendio di oltre quarantacinque gradi, a destra
del sottopassaggio della Ferrovia, sulla strada che porta a Beano e non più con
le gambette malferme di un bambino di poco più di due anni, ma con quelle di un
ragazzo, capivo che per un bambino sarebbe stato semplicemente impossibile
scalare quel ripido pendio sassoso.
Provai fatica allora che avevo dodici e tredici
anni e, ogni volta che provavo, mi rendevo conto che nessun bambino di nemmeno
tre anni avrebbe mai potuto scalarla da solo.
Già allora, prima da bambino e poi da ragazzo,
avevo una fame insaziabile del nuovo, dell’imprevisto, dell’impensabile e
un’innata voglia di conoscere e di sapere.
Già allora mi era chiaro che in Paese non ci sarei
restato.
Volevo conoscere gente, dialogare con loro,
saziarmi di loro e delle loro idee, dei loro gusti e pensieri.
Volevo apprendere e comprendere, capire e imparare
le loro usanze, i loro costumi, assimilarmi le loro abitudini, farle mie e
perché no, anche acquisirle e amalgamarle alle mie evolvendomi con loro.
Volevo conoscere le loro culture, vivere le loro
vite e condividere i loro timori e le loro speranze.
Appunto per questo, già sin dalla mia prima
infanzia, sapevo che in Paese non ci sarei rimasto proprio.
Di ricordi nei primi anni della mia vita che
possano essere definiti importanti, me ne sono rimasti ben pochi.
Il mondo era in guerra. I bambini, grazie al cielo
non sanno cosa sia la guerra, non conoscono la paura di morire o la morte.
I bambini non concepiscono queste cose, lontane
dalla loro innocenza e sincerità.
A quei tempi e di buon mattino, in cielo vedevamo
apparire lunghe strisce bianche accompagnate da un brusio monotono e lontano;
noi bambini le aspettavamo ogni giorno e le chiamavano angeli.
Rapiti, quasi con devozione e nostalgia,
guardavano quelle strisce lassù in alto che si stampavano nell’azzurro del
cielo e le salutavamo senza sapere, che poche ore dopo, proprio da quelle
lunghe strisce bianche, per tanti bambini come noi, sarebbe scesa la morte.
Durante le notti poi, sulle nostre teste sentivamo
il brusio simile a quello delle strisce bianche che vedevamo di giorno.
Lo chiamavano Pippo e a volte, il suo passaggio
segnava la fine di qualche casolare e d’intere famiglie.
Nel Primo Canale eravamo in tanti bambini, eravamo
una vera e propria orda di bambini che strillando, giocavano rincorrendosi per
quel lungo vicolo cieco che mi sembrava sempre un lungo grigio budello senza
fine; eravamo veramente in tanti ed eravamo in un vero e proprio tormento per
gli adulti.
Non avevamo e non davamo neanche mai pace ai
grandi che, a volte ci facevano correre via snervati e infastiditi da tutto
quel gridare, dal tutto quel susseguirsi di pianti e risa, che li assaliva ogni
giorno, dalla mattina alla sera.
Le loro ammonizioni non ci interessavano più di
tanto, li guardavamo incuriositi per un momento, sentivamo quello che avevamo
da dire e, quando avevano finito di esortarci a stare più tranquilli e composti
o, come qualche volta capitava, a sgridarci, con un’alzata di spalle
continuavamo i nostri rumorosi giochi senza curarci di loro.
A qui tempi avevamo pochissimi giocattoli; per
queste cose le nostre famiglie non avevano soldi, non conoscevamo la radio,
figuriamoci poi la televisione.
A quel tempo avevamo solo noi, i nostri chiassosi
giochi e il nostro mondo in quel lungo budello grigio che era allora Via Canale
Primo a Codroipo.
Ogni tanto però, vedevamo che anche i grandi
giocavano e, secondo i loro giochi, li avevamo divisi in buoni e cattivi.
C’erano le buone zie che non ci sgridavano mai
e zii che non ci dicevano mai di star
zitti.
Nel Primo Canale c’era pure uno zio cattivo.
Quest’ultimo mi era sempre sembrato un po’ strano.
Infatti, quando di mattina, scuro in faccia,
usciva da casa, camminava sempre dritto come tutti i grandi. Quando invece, ritornava a casa, la sera non
era più in grado di farlo.
Allora barcollava e a volte, per non cadere come
facevamo noi bambini, si teneva appoggiato ai muri delle case o camminava a
quattro zampe.
Quando cadeva e non poteva più rialzarsi, allora
qualche zia lo aiutava e lui ci sgridava perché lo guardavamo incuriositi.
In quei momenti li, qualcuno di noi bambini,
scappava via a casa dalla mamma e non usciva più a giocare con noi finché lo
zio cattivo non se ne fosse andato a casa.
Quando però cominciava a dirci cose che noi non
capivamo, allora qualche zia gli diceva sempre di tacere e lui, allora gridava
ancora più forte; allora anche gli zii
delle case vicine uscivano in strada, era quello il momento che e i grandi
incominciavano a giocare.
Noi bambini, tenendoci un po’ in disparte,
smettevamo allora di giocare e guardavamo incuriositi i giochi dei grandi,
cercando di capire a che gioco stessero giocando.
Mentre una zia gli dava le botte con una scopa,
un'altra gli tirava un secchio d’acqua e qualche zio gli dava pure un pugno in
testa.
Quello allora incominciava a gridare ancora di più
e allora dalle case uscivano tutti gli altri zii e zie e in pochi minuti, tutto
il Primo Canale si riempiva di gente che gesticolava e gridava. Tutti
incominciavano a giocare e a dirsi cose che non capivo.
Quei giochi dei grandi non mi sono mai piaciuti e
così, per non giocare con loro, correvo a casa dalla nonna Maria e mi sedevo su
di una seggiolina accanto alla porta aspettando che i grandi la smettessero di
giocare.
I giochi dei grandi duravano pochissimo e quando avevano
finito di giocare ritornavano nelle loro case e la strada ci apparteneva
un'altra volta.
Un giorno vidi arrivare degli uomini molto scuri e
chiesi alla mia mamma perché non si lavavano.
Spesso si portavano appresso dei sacchetti di
carta e andavano sempre a casa delle zie in fondo alla via.
A volte stavano poco, ma spesso anche tutta la
notte.
Gli uomini che non si lavavano mai sorridevano
sempre e a volte, ci davano pure qualche caramella.
Un giorno, vidi come uno di questi uomini scuri si
era fermato a parlare con la zia che abitava accanto a noi.
Parlando le aveva dato un sacchettino di caramelle
e le aveva accarezzato i capelli come faceva la mia mamma con me.
Invece di essere contenta, la zia cominciò a
gridare, lo zio che abitava con lei uscì a sua volta da casa gridando cose che
non capivo e lo zio che non si lavava mai, scappò via correndo.
Tutti i grandi che avevano assistito al gioco si
misero a ridere e la buona zia, sorridendo pure lei, ci diede tutte le
caramelle che aveva in mano.
Da quel girono però, gli uomini che non si
lavavano mai non vennero più a trovare le zie che abitavano in fondo al
Primo Canale.
Un paio di giorni dopo, però, erano le zie che
andavano via ogni sera, ma quando ritornavano a casa con tanti sacchetti di
carta in braccio …quelle non ci davano mai una caramella.
Tra i tanti grandi del Primo Canale il migliore di
tutti per me era il nonno Macor.
Il nonno Macor viveva da solo in una piccola
stanza dove c’erano: un letto, un tavolo e una sedia e basta.
Dietro la sua porta, con le fessure riempite di
carta per tenere fuori il vento e il freddo, aveva anche messo dei chiodi, dove
appendeva il suo cappello, il mantello e i suoi pochi vestiti.
Aveva anche una stufa a legna, piccola e rotonda
che lo scaldava d’inverno.
La legna per la stufa andava a raccoglierla nei
campi e su quella si preparava anche da mangiare o riscaldava quello che,
qualche volta, la mia mamma o le altre zie gli davano.
Il nonno Macor era molto povero, era solo ma non
si lamentava, mi sorrideva sempre ed io gli volevo tanto bene.
Appesa al soffitto aveva una piccola campana e
ogni giorno, quando quella del campanile della Chiesa suonava, lui le
rispondeva con la sua e, congiungendo le mani, pregava.
Non sapevo cosa diceva, capivo solo Angelus Domine
e nient’altro mii disse anche che lo faceva ogni giorno e che pregava anche per
me.
In una parte della sua stanza il nonno Macor si
era anche dipinto un bel grande quadro che tutti ammiravano perché era
veramente molto bello.
Il nonno Macor aveva dipinto una collina tutta
verde, in cima alla collina aveva dipinto un grande albero e, sopra l’albero,
un grande cielo immenso tutto azzurro.
La collina era molto grande, l’albero sulla
collina più grande ancora e il cielo sopra l’albero e la collina ancora più
grande dell’albero e della collina messi insieme.
Questo era tutto ciò che il nonno Macor possedeva.
Sembrava poco ma era molto, molto di più di quanto
si possa pensare o immaginare.
Un giorno gli dissi che sapevo dove aveva visto
quel quadro e lui sorrise e, mentre mi accarezzava i capelli, i suoi occhi
azzurri splendevano come il cielo del quadro.
Qualche giorno dopo, poco prima che cominciassi ad
andare all’asilo, dopo la preghiera del mezzodì, nonno Macor cominciò ad andare
via con una sua pentola in mano e a ritornare poco dopo con la pentola piena di
minestra.
In tasca aveva anche del pane e formaggio. Qualche
volta, però, veniva una zia suora a portargli la zuppa a casa e in quei giorni
io non potevo andare a trovarlo perché era ammalato, ma la sua campana suonava
ogni mezzodì.
Un pomeriggio d’estate, quando ritornai a casa
dall’asilo, vidi che la porta della sua stanza era chiusa e chiesi alla mia
mamma, dove fosse il nonno Macor; lei mi rispose che lui le aveva raccomandato
di salutarmi e di dirmi che ritornava per sempre a casa dalla sua mamma.
Nessuno sapeva con esattezza chi fosse o da dove
nonno Macor venisse, un giorno, forse mandato alla deriva dalla Guerra che
imperversava e distruggeva intere città e famiglie, era arrivato in paese
chissà da dove. Aveva poi trovato quel bugigattolo e si era potuto stabilire in
quella piccola stanza che a suo tempo era un ripostiglio di attrezzi.
Nonno Macor quel giorno se ne era andato via per
sempre, tranquillo e silenzioso com’era venuto, quasi non volesse disturbare.
Lo seppellirono con una semplice e frettolosa
funzione e sulla sua tomba ci misero una semplice croce di legno.
Anni dopo, venni a sapere che alla semplice
funzione religiosa, c’erano solo le Donne del Primo Canale.
In quegli Anni tanta gente si era persa per
strada, molti avevano pure smarrito se stessi e vagavano per le strade del
mondo, confusi e delusi, cercando qualche cosa senza nemmeno più ricordarsi,
cosa cercassero ma soprattutto, senza saperne il perché.
Le guerre sono tremende, sembra proprio che l’homo
sapiens, non lo voglia proprio capire che la cosa più stupida e cretina che lui
può fare, è proprio la guerra.
La Guerra serve a portare avanti il discorso di
quattro figli di puttana che vogliono conquistare o detenere a tutti i costi il
potere senza tener conto delle sofferenze e dei lutti che causano.
La Pace non la si conquista armandosi fino ai
denti o distruggendo moralmente il prossimo, bensì dialogando e rispettandosi a
vicenda e non cercando di annientarli o assimilarsi. La viltà conquista e
annienta, la saggezza e il coraggio invece dialogano, valutano e giudicano
senza riserve o premunizioni. L’evoluzione umana nasce dal dialogo, non dalla
sopraffazione e distruzione dell’altrui pensiero!
Nonno Macor aveva perso tutto, ma non era mai solo
e perciò, anche se vecchio e fragile, non si poteva mai perdere.
Lui, che si prendeva il pranzo dalla cucina dei
poveri.
Lui, che non aveva nessuno al mondo, aveva qualche
cosa di molto forte e indistruttibile; aveva la sua campana che squillava all’Angelus
e aveva il suo quadro dipinto sulla bianca parete, della sua stanza annerita un
poco dal fumo della sua stufa.
Lui aveva quel suo albero maestoso su quella verde
collina sotto quell’impostante cielo blu e pertanto; non era mai solo.
La cosa strana del Primo Canale era che in tutta
quella sarabanda vociante di bambini, era composta solo da maschietti.
Eravamo in otto Famiglie con bambini piccoli, dei
quali circa venti erano maschietti e solo tre o quattro femminucce.
Le Famiglie di via Canale Primo non erano ricche
né tanto meno agiate; erano famiglie di operai e manovali e infondo alla Via,
c’era pure una famiglia di ortolani e fioristi che ogni Martedì apriva la
propria bancarella al mercato del Paese.
Noi non avevamo la Radio, a quei tempi nessuna
delle nostre famiglie poteva permettersela e non sapevamo che cos’era a
Televisione.
In compenso però; a quei tempi il dialogo tra la
gente era molto più inteso che oggigiorno.
D’inverno ci radunavamo nella stalla di Giovanni e
mentre le Donne sferruzzavano calzini e maglie per le loro famiglie, noi
bambini ascoltavamo, riscaldati dal calore delle mucche, i discorsi dei grandi.
A quei tempi i grandi avevano sempre qualche cosa
da dirsi, da raccontarsi, avvenimenti e fatti successi durante la guerra, da raccontarsi.
Noi bambini, di tutto quello che dicevano, non ne
capivamo più di tanto, però ci piaceva sentirli parlare e spesso, stanchi delle
scorribande della giornata ci addormentavamo sulle seggioline, allora le nostre
madri ci prendevano in braccio e ci portavano a letto che prima riscaldavano
con una borraccia militare piena d’acqua calda, o per chi non l’aveva, con un
mattone avvolto in un vecchio asciugamano.
Durante l’estate, invece, ci si sedeva nel primo
cortile del Primo Canale accanto alla pompa dell’acqua e, quando faceva
veramente troppo caldo, c’era sempre qualcuno che pompava l’acqua fresca dal
sottosuolo e annaffiava il cortile che subito si rinfrescava.
Quando molti di noi affermano che “una volta” la
gente era migliore dell’odierna, sicuramente manco sanno di sbagliare. L’homo
sapiens è e rimarrà tale anche nei secoli a venire: Un mammifero emotivo, a
volte codardo, comunque irrazionale ma anche capace di grandi eroismi e di
sacrifici personali anche estremi per il bene dei molti.
L’homo sapiens una volta non era migliore, era
solo più povero e ignorante e facile preda dei latifondisti, dei demagoghi e
falsi profeti che erano sempre pronti a sacrificarlo per i propri interessi.
Sicuramente, subito dopo la guerra però, la gente
era più sobria, più semplice e modesta e capace di apprezzare le cose semplici.
Forse proprio per questo la gente a qui tempi era
migliore, infatti, anche se con dolorosi ricordi e lutti, i sopravvissuti erano
riconoscenti al loro destino e felici di essere sopravvissuti alla guerra e
grati di poter guardare con speranza verso un futuro di pace.
La gente aveva visto la morte in faccia, ne aveva
sentito il monotono ronzio alto in cielo e tremato al sibilo e agli scoppi
delle bombe che cadevano dal cielo e piangendo dalla paura si era di nuovo
ricordata che per ogni essere su questa terra, l’unica cosa certa dopo la
nascita, è la morte.
L’uomo che durante la mia prima infanzia ogni
mezzogiorno allo scoccare del mezzodì suonava la sua campana e pregava
l’Angelus, questo lo sapeva molto bene.
Proprio per questo lui era semplice e modesto, in
pace con se stesso e il mondo; contento di ogni raggio di sole che riceveva, di
ogni sorriso di bambino che vedeva e di ogni strillo di bambino che sentiva.
Dal mio terzo Anno di vita in poi, dal momento
cioè che la Guerra se ne era andata via dal Paese, cominciai a frequentare
l’asilo infantile delle suore.
Mia madre mi ci portava la mattina e mi riprendeva
il pomeriggio, io però volevo andarci sempre da solo senza impicci e ogni mattina
facevo una mezza rivoluzione perché non volevo avere i grandi tra i piedi a
dirmi quando e cosa dovevo fare.
Ben presto mi accorsi, e quella fu la mia prima
lezione di Vita, che contro la forza la ragione non vale, pertanto dovetti
abituarmi al fatto che mia madre mi portava ogni mattina all’asilo e mi
riprendeva in consegna il pomeriggio.
Un giorno ne ebbi abbastanza e decisi di evadere e
di andarmene via, volevo scappare via lontano dai grandi che mi volevano sempre
condizionarmi e limitare il mio orizzonte.
Volevo dimostrare ai grandi che non avevo bisogno
di loro e che pertanto, potevo benissimo badare a me stesso.
Sgattaiolai via da una breccia nel portone
dell’asilo e me ne andai in paese a fare un giro esplorativo.
Il paese a quel tempo era in prevalenza agricolo
con qualche bottega artigianale, un paio di negozi e tante osterie, quasi un
villaggio quieto e facile da esplorare, dove un bambino solo per strada non
impensieriva più di tanto.
Quel giorno e per l’ennesima volta, mi fu negato
di andare lontano alla scoperta del mondo sconosciuto, la negazione in assoluto
mi apparse nel bel mezzo della Piazza sotto forma di suor Armanda che senza
mezzi termini mi prese in braccio e mi riporto all’ovile.
A giudicare dalla sua faccia dovevo dedurre che
suor Armanda era piuttosto arrabbiata come me e quando raggiungemmo l’asilo,
per castigo lei mi rinchiuse nella cantina del carbone da ciò dedussi che, più
che più che essere arrabbiata, suor Armanda era incazzata nera.
Impavido e non curante dei suoi ammonimenti, vidi
che sopra la catasta del carbone c’era una finestrella aperta, scalai il
mucchio e usci di nuovo in cortile.
L’unico problema fu che uscii in cortile proprio
quando mia madre arrivava per riprendermi in consegna; lei vide il filius
uscire a quattro zampe fuori dalla finestrella della cantina, nero come il
carbone e fece il diavolo a quattro con la prima suora che le capito a tiro.
I loro discorsi però non mi interessavano proprio
e così, mentre loro discutevano, colsi l’occasione propizia e scappai
nuovamente via alla scoperta del mondo.
Ja Scheiße, questo naturalmente non piacque a mia
madre che nel frattempo si era sicuramente lasciata convincere dalla suora che
ero un discolo irrequieto e testardo.
Quel pomeriggio, le mie intraprendenze di esploratore
solitario finirono ingloriosamente in un secchio di legno nel cortile di casa,
con un noioso bagno fuori programma, un paio di sculacciate e qualche lacrima.
I primi giorni di scuola alle elementari mi fecero
capire che il Paese abbondava di una cosa sola: di bambini; a occhio e croce
eravamo oltre trecento e anche lì, come nel Primo Canale, i maschietti erano
più numerosi delle femminucce.
La mia cartella di cartone marrone era molto
scarna, avevo un astuccio con una matita una gomma per cancellare, il
sillabario e un quaderno.
Altri invece avevano tante matite colorate e
quaderni da dipingere che ci mostravano a scuola, si portavano la merendina con
i biscotti e la marmellata, mentre la gran parte di noi invece, non aveva
niente, e doveva attendere fino a mezzogiorno per magiare la minestra.
Sulle prime ero un po’ invidioso delle loro matite
colorate, poi però mi accorsi che questi bambini durante la ricreazione nel
cortile della scuola non giocavano mai con noi. Questi bambini, se ne stavano
sempre in disparte a guardare i nostri giochi, non erano chiassosi e allegri
come noi, guardavano e basta e non capivo proprio come mai, c’erano dei bambini
che non volevano giocare come noi.
Un giorno, chiesi a uno di loro perché veniva a
scuola calzando sempre le scarpe della domenica; sorridendo della mia
ingenuità, mi rispose, che quelle non erano le scarpe della Domenica e che a
casa, ne possedeva delle altre. La sua risposta la trovai strana, infatti, ero
convinto che i bambini dovessero calzare le scarpe buone quando di Domenica
andavano a Messa con la loro mamma e non ogni giorno.
Durante la settimana calzavo sempre le ciabatte di
stoffa che la mamma mi faceva e perché non mi bagnassi i piedi, la suola era
fatta con i vecchi copertoni della bicicletta del nonno Pasquale.
Le scarpe di stoffa erano molto leggere e non
facevano male ai piedi come le scarpe buone della Domenica. Con le ciabatte ai
piedi potevo correre meglio e giocare quanto volevo senza badare a non
insudiciarle, quando poi si sporcavano allora bastava lavarle la sera prima di
andare a dormire, sotto la pompa nel cortile o nel secchio di legno dove la
mamma mi lavava ed erano asciutte e pulite la mattina dopo.
Quando poi si rompevano, senza sgridare la mamma
me ne faceva subito delle nuove.
I bambini che avevano sempre le scarpe della
Domenica invece non potevano mai giocare con noi, dovevano sempre stare attenti
a non sporcarsi le scarpe altrimenti le loro mamme li avrebbero sgridati.
Un giorno che pioveva da matti, anche la roggia
che passa vicino alla scuola straripò e la piazza era un poco allagata.
Quel giorno la mamma venne alla scuola con la
bicicletta del nonno e mi portò a casa.
Alcuni dei bambini con le scarpe della Domenica
invece vennero portati a casa con la macchina e quando ci salivano sopra, le
loro mamme li sgridavano perché si erano bagnate e sporcate le scarpe.
Deve essere proprio brutto vivere con delle mamme
simili.
La mia mamma invece, anche se le mie ciabatte si
erano bagnate non mi sgridò, me le tolse assieme ai calzini di lana fatti in
casa che si erano bagnati pure quelli, mi asciugo i piedi con un asciugamano e
mise le ciabatte accanto alla stufa ad asciugare ed io, visto che fuori pioveva
che sembrava il diluvio e mi misi a fare i compiti di casa.
Nel 1950 il Comune ci assegno una casa popolare.
La nostra nuova casa aveva due piani, con tante
finestre che lasciavano entrare il sole e le stanze, specialmente d’estate,
erano sempre piene di luce. Avevamo una stanza ripostiglio con la pompa
dell’acqua una cucina e un salotto, al piano di sotto, e, due camere e un bagno
a quello di sopra.
La nuova dimora faceva parte su una schiera di
altri sette appartamenti dove ognuno aveva anche il suo piccolo cortile
didietro e un giardinetto davanti.
Tutto ci sembrava in regola e specialmente noi
bambini, eravamo molto contenti di avere una camera per conto nostro, lontani
dal russare di papà.
Il giorno che prendemmo possesso della nostra
nuova dimora, mio fratello, dopo aver ispezionato il Cortile, cominciò a girare
furtivo per ogni stanza.
Iniziando dal sottoscala lo vidi passare in
rassegna tutte le stanze fino al bagno, dove c’erano: una vasca da bagno di
cemento, un lavandino con i rubinetti che bastava aprirli per far uscire
l’acqua e uno strano lavandino che non avevamo mai visto, prima.
»Nel cortile non c’è il cesso e in questa casa
manca il buco per cagare « -sentenzio il mio fratellino- »mamma in questa casa
non si può cagare, come facciamo, dobbiamo cagare nel secchio, come facevamo di
notte nella casa vecchia?«
Sentendolo gridare dalle scale, paziente e ridendo
i nostri genitori ci spiegarono la funzione dello strano lavandino e
anche quella della catenella che pendeva da una cassetta in alto sotto il
soffitto sopra la tazza. Ci spiegarono che quello strano lavandino era un water
e che da quel giorno in poi non dovevamo più portarci dietro un ritaglio di
giornale come dovevamo fare nel Primo Canale quando si andava al cesso comune a
tutte le famiglie in cortile e tanto meno un secchio d’acqua. Nel bagno della
casa nuova, accanto alla tazza, c’era un rotolo, la mamma ci disse che quello
era di carta igienica e, quella, ci spiegò, sostituiva i ritagli di giornale.
Mio fratello di sei anni si fece spiegare il tutto
un'altra volta e volle subito fare una prova. Quel pomeriggio stando seduto
sulla tazza mio fratello mi disse una frase, che non dimenticherò mai, campassi
cent’anni, infatti, disse: »Franco qui sì che e bello cagare e si può pure
guardare fuori dalla finestra«
La vita nella nuova casa aveva assunto un aspetto
migliore, le nostre giornate, lontane dalle grigie mura del Primo Canale erano
diventate più spaziose e luminose.
I nostri orizzonti si erano allargati e dalla
nostra camera vedevamo le montagne lontane.
Da quel giorno in poi, ogni mattina prima di
andare a scuola, il mio primo compito era di pompare l’acqua nella cisterna che
stava in soffitta.
Dovevo pompare finché l‘acqua dal sovrappieno del
serbatoio non usciva dalla grondaia; quell’acqua poi, ci bastava per un’intera
giornata. Solamente il Lunedì quando la mamma faceva il bucato oppure il Sabato
sera quando dovevamo fare il bagno, in casa serviva più acqua e perciò dovevo
pompare di più.
La nuova casa mi piaceva, a volte, però pensavo
che nella vecchia casa, certe cose fossero molto più semplici.
Nella casa vecchia il bucato si faceva nella
roggia, in quella nuova invece dovevo pompare ogni Lunedì tanta acqua nella
botticella di legno, dove la mamma ci lavava i panni.
Quando risciacquava i panni che lei poi stendeva
in cortile ad asciugare al sole, allora sì che le serviva tanta acqua, quel
giorno, invece di andare a giocare dovevo starmene lì a pompare finché lei
aveva risciacquato tutti i panni.
In quei momenti pensavo che la roggia fosse
sicuramente migliore.
Nel cortile la mamma si era fatta anche un
orticello, era piccolo ma grande abbastanza per un po’ d’insalata e quattro
pomodori, dei cetrioli, del prezzemolo, del rosmarino e della salvia, un poco
di basilico e un alberello di cachi.
Un giorno papà divise con una palizzata in cortile
in due e costruì anche due gabbie di legno perché la mamma voleva allevare dei
conigli e dei polli.
Infatti, un bel giorno la mamma arrivo a casa con
una gallina e ci disse che quella era una chioccia e la mise nel sottoscala in
una cesta con tante uova a covare.
Mio fratello ed io non avevo mai visto una cosa
simile e, incuriositi, aspettavo impazienti di vedere nascere i pulcini.
Qualche giorno dopo la mamma arrivo a casa con due
sporte piene di conigli, e così mi fu assegnato un altro compito, quello di
andare in giro per i campi a raccogliere erba per dar loro da mangiare.
Un bel mattino, trovammo il sottoscala invaso dai
pulcini e quando questi diventarono galline, cominciarono a deporre le uova e
cosi, due volte per settimana, a cena mangiavamo la frittata con la cipolla o
con le patate.
Mio fratello ed io mangiavamo tutto quello che la
mamma ci preparava per pranzo o per cena, ma facevamo sempre una mezza
rivoluzione ogni qualvolta che la mamma preparava uova sode in umido con il
porro, quelle non ci piacevano proprio.
La ricetta l’aveva trovata in un calendario, meno
male che, grazie alla nostra caparbietà, le uova sode in umido con il porro
sparirono dalla nostra tavola.
Ogni tanto la Domenica sera, invece mangiavamo un
coniglio arrosto con le patate o magari, anche un pollo.
La nostra vita nella casa nuova aveva assunto
un'altra dimensione e restrizioni del Primo Canale erano finite.
Dalle finestre dalla nostra stanza da letto
potevamo vedere lontano e dall’altra parte della nuova Strada fatta apposta per
noi, cerano i campi di granoturco.
Indubbiamente, nella casa nuova la vita era
migliore che nel Primo Canale.
Nella casa vecchia, dopo mangiato dovevo fare
subito i compiti di casa, in quella nuova invece no.
Nella casa nuova invece, prima di fare i compiti dovevo
andare nei campi a raccogliere erba per i nostri conigli, i compiti per casa
poi, li facevo alla sera, prima di cena.
A raccogliere erba andavo sempre con gli altri
bambini che già conoscevo dalla scuola e che ora erano miei vicini di
casa.
Anche loro avevano dei conigli da allevare e cosi;
con un sacchetto sotto braccio, andavamo assieme a raccogliere erba nei campi.
Giocavamo nei campi, salivamo sugli alberi e se ci
sbucciavamo le ginocchia, pulivamo via il sangue e spalmavamo la ferita con un
po’ di saliva, dopo averla pulita con qualche goccia di pipì.
D’estate poi, nei campi trovavamo sempre il ben
di Dio.
Le ciliege, le pesche, le mele, l’uva, all’inizio
avevamo chiesto ai contadini se potevamo mangiarne alcune, per tutta risposta
quelli non solo ci sgridarono, ma ci fecero anche scappare via.
La guerra tra noi e i contadini cominciò proprio
per questo, noi volevamo solo assaggiare e per questo loro ci sgridarono, ci
fecero anche paura e così, per ripicca, noi la smettemmo di chiedere e stando attenti
a non farci vedere, cominciammo a farci delle vere e proprie scorpacciate di
tutta la frutta che trovavamo nei campi.
Da quel giorno i contadini che lavoravano nei
campi cominciarono a vederci come una piaga di cavallette e a guardarci male
ogni volta che passavamo vicino ai loro campi.
Qualche volta ci correvano dietro, ma era tempo
perso, era come corre dietro ad una lepre, noi scappavamo a nasconderci nel
granoturco e facevamo perdere le nostre tracce.
Giravamo da monelli, infatti, lo eravamo diventati
proprio grazie ai nuovi spazi che avevamo a disposizione, giravamo per i prati
in fiore, saltavamo nei fossi e facevamo il bagno nell’acqua fredda che
d’estate scorreva cristallina nei canali dell’irrigazione.
Scorrazzavamo sempre in calzoncini corti e senza
canottiera, ed eravamo tutti abbronzati e scuri come mulatti.
Avevamo il nostro albero preferito, dove ci
radunavamo e progettavamo quasi in modo strategico il nostro pomeriggio.
Un bel giorno però, seduti sotto il nostro albero,
c’era una donna in compagnia di un anziano contadino; i due parlavano tra loro,
non appena ci videro arrivare, la donna ci fece subito correre via.
Trovammo il contadino e la donna quasi ogni giorno
seduti sotto l’albero; allora tiravamo dritto salutandoli e giacché il contadino
era seduto sotto l’albero intento a parlare con la donna, noi bambini andavamo
nei suoi campi a mangiare le pesche e l’uva.
Una volta con noi c’era pure Aldo, un ragazzo più
vecchio di noi; lui abitava in un’altra Strada ma qual giorno, era venuto via
con noi in giro per i campi.
Quel giorno vedemmo che il contadino e la donna
sotto l’albero stavano giocando un gioco che ancora non avevamo mai visto prima
e Aldo ci disse ridendo che i due non stavano giocando, bensì chiavando.
Più tardi ci spiegò che la donna che giocava con
il vecchio contadino veniva da un paese vicino al nostro, ci disse anche dove
abitava, altro non seppe dirci.
Noi però continuammo per la nostra strada e visto
che il contadino era occupato a giocare andammo di nuovo nei suoi campi a
mangiare le pesche e a farci l’erba per i conigli.
Quella stessa sera dopo cena mentre eravamo seduti
al fresco davanti alla porta di casa, mentre i grandi parlavano, mi ricordai
della donna e del contadino che giocavano a chiavarsi sotto l’albero e chiesi
alla mamma che gioco era.
Per tutta risposta quella mi mollo uno schiaffo ed
io cominciai a piangere.
I grandi si misero a ridere; risero tanto e a
lungo, finché uno di loro mi chiese dove e da chi avevo sentito di quel gioco.
Cosi, tenendo ben d’occhio le mani della mamma;
raccontai della donna e del vecchio contadino che da un po` di tempo vedevamo
sempre sotto l’albero a giocare o a parlare. Raccontai anche che Aldo ci aveva
spiegato che i due giocavano a chiavare e chiesi anche alla mamma perché mi
aveva picchiato.
Gli uomini si misero a ridere ancora di più, le
mamme invece no, quelle non ridevano proprio, anzi, sembravano veramente molto
arrabbiate e quando la mia mamma mi chiese se conoscevamo quella donna,
tenendomi un poco in disparte per non ricevere un altro scappellotto, le disse
che quella veniva dal paese vicino e che Aldo la conosceva.
Uno degli Uomini disse che quella era la puttana
del paese; non sapevo che cosa fosse una puttana, ma, nel timore di prendere
un’altra sberla, me ne guardai bene dal chiedere e pertanto stetti zitto.
Le nostre mamme erano diventate rabbiose per
davvero e dissero agli uomini di smetterla di ridere e parlando tra loro, in
pochi minuti decisero di andare l’indomani a parlare con la donna del paese
vicino.
Le mamme, l’indomani mattina, mentre noi eravamo a
scuola, andarono in bicicletta a parlare con quella donna e da quel giorno lei
non venne più giocare con il vecchio contadino sotto il nostro albero.
Neanche il contadino si fece più vedere.
Un giorno, sentii dire che il vecchio contadino
era caduto dal suo carro e che si era rotta una gamba e un braccio e che per un
poco non poteva più camminare o lavorare nei campi.
L’albero era di nuovo nostro.
La mia prima banana la mangiai quando già avevo
undici anni.
Conoscevo le banane, le avevo viste dal
fruttivendolo e ogni Martedì durante il Mercato settimanale, sulle bancarelle
della frutta, ma non ne avevo mai mangiata una.
La mamma non le comprava mai perché costavano
troppo.
Potevamo andare in giro eri campi a pesche a uva a
fragole o a pere, ma mai a banane, infatti, i contadini non le piantavano.
Il giorno, che riuscii a mangiare mia prima
banana, alcuni miei amici erano andati dallo straccivendolo e rotamaio a rubare
ferro vecchio e mi avevano detto di starmene dietro il muro di cinta e
fischiare se vedevo arrivare un Vigile Urbano o un curioso abitante della zona.
I due erano riusciti a scavalcare il muro di cinta
e dopo avere gettato un mezzo sacco di pentole di alluminio sulla stradicciola,
andarono tranquilli e bussare al portone del rottamaio e gli rivendettero il
suo alluminio.
Quell’impresa mi frutto trenta lire.
I miei problemi iniziarono quando cominciai a
chiedermi che cosa avrei dovuto fare con quei soldi.
Sarebbe stato impossibile tenermi i soldi in tasca,
prima o poi però la mamma se ne sarebbe accorta e allora avrei dovuto spiegarne
la provenienza e questo avrebbe sicuramente complicato un poco
la faccenda.
L’idea di dovermi sottoporre a una sorta di botta
e risposta dove alla fine se non fossi stato attento a cosa dicevo, ci
sarebbero state solo le botte, non mi piacque per niente e cosi, per forza di
cose e spirito di sicurezza personale, per non andare in contro a dei guai,
decisi di spenderli.
Mi regalai un paio di banane un gelato e un
gianduiotto.
I miei amici dal canto loro con i soldi del
rottamaio volevano andare al cinema e comprarsi una palla di gomma per giocare
a pallone.
Il mio guaio era che sapevo che in fondo avevamo
rubato e comincia a sentire rimorsi, per ritrovare la pace con la mia coscienza
e non dover finire all’inferno per quattro pignatte di alluminio tutte rotte,
il Sabato pomeriggio decisi di andare a confessarmi e raccontai tutto al
Parroco.
Era la prima volta che raccontavo queste cose al
nostro Parroco e anche se non mi vedeva e non sapeva chi ero, mi vergognavo un
poco.
Il Parroco dopo avermi ammonito a non farlo più,
mi condanno a dire una mezza sfilza di preghiere alta come il Campanile che
dopo la confessione, recitai in cinque minuti. Dopo la penitenza, contento di
non avere più peccati e di avere un’anima bianca e pulita, corsi nel cortile
della Chiesa, dove i miei amici stavano giovando con la palla di gomma comprata
con i soldi rubati al rottamaio.
I due miei nuovi amici erano molto più grandi di
me, avevano già quindici o sedici anni e non dovevano andare a confessarsi ogni
Sabato come dovevo fare io.
I loro papà parlavano sempre male dei preti e
dicevano che bisognava mandarli via.
Questo a me non piaceva, il nostro Parroco era
molto buono come lo erano gli altri Sacerdoti del paese e non capivo perché i
papà dei miei amici, li volessero cacciare via dal Paese.
Un giorno, mi portarono in una casa, dove sulla
porta, c’era un’insegna con una Bandiera rossa con falce e martello.
La stanza era grande e aveva le pareti tutte
tappezzate con volantini e manifesti e bandiere rosse con falci e martelli.
Appesi a una parte, dietro un grande tavolo pieno di volantini e scatole,
c’erano delle fotografie di Uomini che non conoscevo, uno di loro con una
barbetta come una capra con il braccio alzato salutava qualcun altro.
Uno degli uomini da una scatolina prese un
distintivo, dove si vedevano una falce e un martello e sotto c’era scritto PCI
e me l’appunto ridendo, sulla canottiera.
Faceva
caldo quel giorno e mentre gli uomini bevevano vino spillato una damigiana
posta su di un altro tavolo accanto a tanti bicchieri e misure per il vino
tavolo; uno degli uomini accanto alla damigiana, ci diede un’aranciata
ciascuno.
La sera stessa durante la cena il papà mi tolse il
distintivo e mi chiese chi me lo avesse dato.
Gli spiegai tutto per filo e per segno e lui si
mise il bel distintivo in tasca dicendomi che lo avrebbe restituito a quelli
del PCI.
La mamma poi mi chiese come mai ero andato in
quella casa e così, tenendo ben d’occhio le sue mani, dovetti spiegare pure a
lei tutto quello che era successo quel pomeriggio.
MI disse solo di non andarci più perché quegli
uomini la, erano contro il Parroco e la cosa fini li.
I miei nuovi amici, avevamo sempre qualche liretta
in tasca. Qualche volta quando ne avevano più del solito, allora mi davano
qualche dieci lire o un paio di strisci di gomma da masticare.
Loro mi dicevano che avevano aiutato i contadini e
ricevuto un po’ di soldi, ma io sapevo che non era vero e che quei soldi li
avevano presi dal rottamaio dopo avergli venduto il ferro o l’alluminio
rubatogli prima.
La mamma mi aveva detto che loro erano troppo
grandi per me e mi aveva proibito di andare a giocare con loro.
Meno male che ogni Sabato mi potevo confessare.
Ogni Sabato raccontavo i miei peccati al Parroco
che poi mi dava una penitenza e cosi ero di nuovo in regola con il mio angelo
custode e potevo continuare a giocare con i miei amici.
In quell’anno durante le ferie estive, ogni
pomeriggio ci ritrovavamo sotto il nostro l’albero dietro il Cimitero e dopo
aver deciso in modo strategico sul daffare, andavamo a raccogliere erba per i
nostri conigli.
Avevamo tempo, tutto il pomeriggio, fin quasi
l’ora di cena era per tutto noi. Eravamo dei veri e propri monelli, giravamo
per i campi e a volte ci spingevamo fino sulle rive del Tagliamento, dove
cercavamo un posto tranquillo con acqua poco profonda e facevamo il bagno.
Durante le nostre scorribande, decidevamo sempre
che tipo di uva o frutta da mangiare quel giorno, infatti, non avevamo che
l’imbarazzo della scelta.
Sapevamo sempre, quale contadino era nei campi,
cosa faceva e dove lavorava, io allora mi facevo vedere e mentre lui mi teneva
d’occhio, i miei amici dall’altra parte del campo, dalle viti colme di grappoli
d’uva, prendevano ciò che volevamo.
La frutta la risciacquavamo in uno dei tanti
canali per l’irrigazione che solcano la fertile terra friulana e, seduti sul
ciglio di un fosso o all’ombra di qualche gelso, golosi e mai sazi, mangiavamo
la nostra preda.
L’acqua che scorreva fresca e cristallina nei
canali per l’irrigazione dei campi era purissima e si poteva bere senza
problemi.
Negli anni cinquanta la pianura friulana d’estate
era come immane fontana, anche a pochi metri da casa nostra quando il sole,
scioglieva la neve sulle montagne in più punti come d’incanto l’acqua sgorgava
dalla Terra.
Tutta quest’acqua sorgiva poi finiva nella roggia
e nel fiume Stella. La flora di quel fiume, come quella del Tagliamento, è
unica in Europa ed entrambi sono zone protette.
D’estate poi quando mio nonno irrigava i campi, mi
portava sempre con lui e cosi, potevo vedere come faceva.
Il sistema d’irrigazione era molto raffinato e i
suoi canali si estendevano per diverse decine di chilometri quadrati.
Ogni campo aveva accesso a un canale e con un
semplice sistema di chiuse che in fondo, non era altro che un ingegnoso sistema
di piccoli portelli di legno, con questi, ogni contadino poteva deviare l’acqua
nei suoi campi o lasciarla scorre in quelli del vicino.
In Paese in quegli anni c’erano pure diversi
cacciatori e pescatori di frodo, lo facevano per sopravvivere in un Paese
ancora dilaniato dai rancori tra partigiani comunisti e gli uomini di destra
com’era mio padre. Anni dopo venni a sapere che ritornando il distintivo del
PCI all’uomo che me lo aveva regalato, mio padre da amico, gli consiglio di non
farlo mai più, meno male che quei due erano compagni di scuola.
I Cacciatori e pescatori di frodo pescavano di
notte con le lampade a carburo e la fiocina per mantenere le loro Famiglie e di
giorno cacciavano nelle campagne le lepri e i fagiani e qualsiasi altro
volatile che avesse la malaugurata idea di passare davanti alle canne dei loro
dannati schioppi.
A quel tempo il pesce abbondava nelle acque pure e
limpide dei ruscelli e nei campi si vedevano sempre lepri e fagiani, falchi e
altri rapaci che li scrutavano e li cacciavano dall’alto.
Con i miei nuovi amici andavo molto d’accordo,
conoscevano tante cose a me sconosciute, erano già stati via con il treno fino
a Udine e andavano ogni Domenica al cinema, anche a quelli per soli adulti o
esclusi e si erano già presi diverse volte a sassate con i ragazzi dei paesi
vicini.
A casa mia le cose erano differenti, la mamma non
voleva che stessi troppo tempo lontano di casa e mi aveva anche proibito di
andare al fiume.
Dovevo solo andare con gli altri a raccogliere
erba per i conigli, studiare un poco e badare a mio fratello di quattro anni
più piccolo di me, di più, non avrei potuto fare, meno male che il Sabato
pomeriggio potevo andare dal Parroco a confessarmi.
Mio fratello ed io andavamo molto d’accordo, anche
se qualche volta con brio e contentezza gli avrei tirato un calcio, giocavo
sempre volentieri con lui e ogni volta che i miei amici mi davano una striscia
di gomma da masticare, la dividevo con lui.
D’Inverno quando faceva freddo e per riscaldare il
letto, noi ci portavamo le borracce dell’acqua calda e lui si lamentava sempre
che la sua non gli bastava, allora io per riscaldarlo andavo con lui nel suo
letto.
Infatti, il furbastro si era accorto che suo
fratello maggiore era più efficiente a riscaldare il suo letto che la borsa
dell’acqua calda che la mamma aveva vinto alla pesca durante la sagra autunnale
del nostro patrono San Simone e pertanto mi voleva avere sempre con se..
A quel tempo non avevamo ancora i caloriferi e la
nostra cucina era l’unica stanza riscaldata e la nostra stufa era troppo
piccola.
Io ci andavo sempre volentieri anche e sapevo che
una volta scaldato, lui mi cacciava via e cosi dovevo andarmene nel mio che
naturalmente era ancora freddo.
Mio fratello Sandro si spense dopo una breve
malattia quattro anni dopo e anche oggi, a quasi sessant’anni dalla sua
scomparsa, mi manca quella piccola carogna che quando faceva freddo, mi
chiamava nel suo letto perché lo riscaldassi e mi cacciava via, minacciando di
svegliare nostra madre, quando si era scaldato, e qualche volta, vorrei che la
fuori facesse lo stesso freddo di allora.
Quando la quasi monotonia delle Scuole Elementari
finalmente terminò, mi sentii quasi come liberato da un nemico, mi sentivo già
grande e pronto a scardinare il mondo.
Già allora, nell’Estate del 1951 sentivo che in paese non ci sarei restato.
Da bambino quando ancora abitavamo nel Primo
Canale, dividevo i grandi in buoni e cattivi, ora da grandicello, cominciavo a
dividerli in servili e opportunisti da un lato e, padroni e sfruttatori
dall’altro.
Negli anni mi ero accorto che la fine della Guerra
aveva cambiato poco, se non quasi niente.
La Gente si leccava le ferite coltivando vecchi
rancori, originati dalla quasi certezza e impossibilità di non aver mai potuto
e di non essere in grado rompere nemmeno a Guerra finita, le catene della
povertà e degli stenti e del duro lavoro di una società contadina, abituata a
lavorare dal sorgere al calar del sole e a ubbidire, soprattutto a subire
soprusi e angherie sociali di ogni genere, senza protestare.
A quei tempi protestare significava perdere subito
il lavoro.
Sembra veramente che la società friulana di allora
fosse formata da schiavi o uomini di seconda classe e che cercasse uno sbocco
liberatorio nel PCI.
A quel tempo il paese non aveva molto da offrire,
almeno per noi adolescenti i nostri orizzonti finivano sull’altra riva del
Tagliamento o alla fine della terra, la, dove i binari della ferrovia
sembravano congiungersi.
In Paese
esisteva ancora una villana dipendenza verso tutti quelli che giravano con la
cravatta anche durante i giorni feriali.
La morsa del giogo di veneziano e aristocratico
stampo benedetto alla Chiesa, serpeggiava ancora nelle menti dei più, questo
anche perché le possibilità di lavoro che il Paese aveva da offrire, erano
piuttosto poche.
La gioventù di allora non aveva che l’imbarazzo
della scelta, tra il lavoro nell’edilizia o nell’artigianato o se di famiglia
contadina . nell’agricoltura che allora era molto faticosa e non molto
redditizia.
La loro strada era aperta al lavoro come manovale
con una misera paga per oltre sessanta ore di lavoro settimanale, oppure come
apprendista muratore o artigianale, quasi senza paga.
Il salario degli apprendisti a quel tempo era una
mancia domenicale e tanti ringraziamenti e inchini verso il padrone per avere
dato la possibilità di imparare un mestiere.
L'altra possibilità che
il paese aveva da offrire ai giovani, oltre a era quella di commesso in uno
dei negozi che vendevano bottoni e nastrini colorati, stoffe e indumenti vari era l'emigrazione.
C’erano sì, anche dei piccoli confabulatoti
d’affari, forestieri veneti o triestini, veri e propri schiavisti che sparirono
con l’evolversi della società contadina friulana, ma oltre all’edilizia
all’artigianato la vita del commesso tra bottoni e nastrini colorati o allo schiavismo del facchinaggio, il paese non aveva altro da
offrire.
In quel periodo, industrie di sorta in Friuli se
ne trovavano ben poche, l’assunzione in posti e lavori di un certo rilievo
dipendeva ancora in gran parte dal Parroco o dai sindacati e non, dalle
capacità e idoneità delle persone.
Ieri come oggi, valeva il chi sei e non cosa sai
fare o di che pasta sei fatto.
Anche sotto quest’aspetto, il male Italiano
attuale germogliò in quel periodo.
Le scarpe che il Paese aveva da offrirmi mi
andavano troppo strette, la mia era, una ribellione interna, tutta mia
personale e che nessuno poteva domare.
D’altronde, per continuare ad andare a scuola, da
noi mancavano i soldi.
A quel tempo però capii che se avessi potuto scegliere, mi sarei rifiutato di studiare, appunto per non diventare parte di una mentalità sociale, che già nella mia infanzia e adolescenza, mi era aliena.
A quel tempo però capii che se avessi potuto scegliere, mi sarei rifiutato di studiare, appunto per non diventare parte di una mentalità sociale, che già nella mia infanzia e adolescenza, mi era aliena.
Un bel giorno in casa cominciarono a serpeggiare
le prime previsioni per il mio futuro.
La scelta era semplice, lavorare, imparare un
mestiere o studiare almeno fino alla terza media.
Imparare a contare bottoni colorati e
impacchettare nastrini e stoffe colorate, andare nell’edilizia o
nell’artigianato oppure, come altri miei compagni di classe, aspettare Godot
che era sì già stato inventato, ma che ancora, nessuno conosceva.
Mia madre, che non conosceva Godot, mi aveva
trovato un posto di aspirante commesso in un negozio d’indumenti e stoffe,
bottoni colorati e nastrini variopinti.
Ja Scheiße, la sonora risata che le feci in faccia
quando me lo disse, fece accorrere anche la vicina di casa che incuriosita
dalla mia ilarità, era venuta correndo da noi, a vedere cosa era successo.
Mia madre dal canto suo, dopo un momento di
perplessità, ridendo, come di consuetudine mi mollo uno schiaffo e mi disse di
levarmi subito dai piedi.
Sentivo che il mio mondo era quello della tecnica
applicata, volevo diventare aggiustatore meccanico, costruire, fare, migliorare
e non di certo, vendere nastrini variopinti e bottoni colorati in un negozio di
provincia, nel paese degli asini.
L’artigianato friulano di allora, anche se per un
apprendista non era certo il paradiso terrestre, ma oltre a molto lavoro e poche
palanche, trasmetteva ai giovani qualche cosa di molto importante, un solido
mestiere e insegnava a usare il cervello in modo indipendente.
L’arte artigianale friulana, tramandata nei secoli
da padre a figlio, da padrone a garzone, è ormai sparita, distrutta da una
cultura e politica del lavoro, sbagliata e contraddittoria, che appunto, nacque
e si sviluppò, durante gli anni della mia adolescenza.
Oggi, anche se nessuno ha il coraggio di
ammetterlo apertamente, dell’apprendistato di allora se ne sente dolorosamente
la mancanza specialmente quando s’iniziano a contare le croci e le lapidi delle
attuali Morti Bianche che popolano tutti i Cimiteri della Penisola dal Brennero
a Lampedusa, allora ci si accorge dei danni fatti alla Società Italiana dai
politici, dai sindacati e dal clero.
Tutto questo non è altro che il risultato delle
Bandiere rosse con la falce e il martello, con i bei distintivi colorati da
appuntare sulle canottiere dei bambini e discorsi sindacalisti vari e della
strafottente morbosità di potere sulla società Italiana, da parte di una Curia
che predica bene, ma raspa male.
Alla fine del tirocinio di apprendista ai giovani
intraprendenti e speranzosi di una vita migliore, rimaneva solo una
possibilità: Emigrare.
È stata la speranza, la voglia e la determinazione
a rompere le catene della povertà e dello schiavismo politico a produrre il
miracolo economico italiano. Lo iniziarono gli emigranti con le loro rimesse
non i politici. Fu chi andò via a creare i presupposti per un vero lancio
economico in Italia mai visto prima. Furono gli emigranti ad alimentarlo e
ampliarono con il loro lavoro. Aumentando il potere d’acquisto delle loro
Famiglie in Italia gli emigranti italiani incrementarono l’uso di bottoni e
nastrini variopinti, sfoltirono le file dei disoccupati in Italia e diedero la
possibilità ai loro coetanei rimasti a casa, di trovare lavoro più facilmente,
infatti, gli emigranti crearono e, lo stanno facendo tuttora, posti di lavoro,
nelle loro terre di origine.
Il miracolo economico italiano inizio con la
costruzione delle case che gli emigrati iniziarono a costruirsi in Italia,
incrementando l’edilizia e l’artigianato, non i politici e qui quattro cagoni
con la cravatta di allora e tanto meno le bandiere rosse e neppure le
innumerevoli Madonne portate in Processione in giro per il bel Paese.
Tutto questo fu possibile solo grazie al lavoro
Italiano nel Mondo.
Furono gli emigranti a gettare le fondamenta del
miracolo economico europeo, lo stesso vale anche e soprattutto per la Germania.
Gli Italiani in Germania, non solo ricostruirono
le Strade, le Fabbriche e le Case, ma nel loro tempo libero; aiutai dalle
volenterose donne Tedesche, ripopolarono pure tutta l’intera fottuta Nazione.
La mia esistenza di bambino, fini in modo brusco e
senza preavviso un bel mattino d’estate, quando mio zio materno che lavorava
nell’edilizia, mi venne a prendere per portarmi con sé in cantiere a lavorare.
Avevo quattordici anni e avevo appena terminato un
triennio di preparazione commerciale e computisteria, partite doppie e semplice
ragioneria, stenografia e cagate varie.
Qualche cretino aveva messo in testa a mia madre
che ero troppo selvaggio per le discipline scolastiche e così per non lasciarmi
proprio con la quinta elementare m’iscrissero a una scuola d’orientamento
commerciale, sperando che mi decidessi a contare bottoni colorati.
Il lavoro in un cantiere edile non era certo
quello che faceva per me, ma mi diede la possibilità di guardarmi un po’ da
vicino il mondo della tecnica.
Oggi un fatto simile sarebbe catalogato come
sfruttamento del lavoro giovanile, ieri, specialmente nelle zone rurali e non
solo friulane o italiane, era all’ordine del giorno che a quattordici anni si
cominciasse a lavorare.
La ragione che i miei vedevano in me un muratore e
non un meccanico, nessuno è riuscito mai a spiegarmelo, a quel tempo non
esistevano spiegazioni di sorta, si doveva fare ciò che dicevano i grandi e
basta.
Sogni nel cassetto ne avevo tanti, ma tutti
nebulosi, nello stesso istante che la mia fanciullezza termino e vidi da vicino
i grandi al lavoro smisi di sognare.
Li vedevo
curvi tutto il giorno, il sotto cocente. Li osservavo mettere un mattone sopra
l’altro. Li vedevo spalare fondamenta di case o a trasportare mattoni e
calcestruzzo su per le impalcature delle case in costruzione. Vedevo le loro
facce sudate e a volte ascoltavo com’erano umiliati da dei padroni senza
scrupoli. Li vedevo lavorare anche se ammalati con il sole o sotto la pioggia o
con le mani fasciate per delle ferite e infortuni sul lavoro e giurai a me
stesso, che non sarei mai finito così.
In quegli anni non conoscevo il mare, non avevo
mai visto il mare, sapevo che l’acqua del mare era salta ma non l’avevo mai
assaporata.
Il sapore salmastro del mare come il frusciare
vento e delle onde mi era sconosciuto, come lo erano i concerti che solo gli
Uragani sanno suonare, tra le strutture e gli scafi delle navi.
A quel tempo non sapevo di mare.
Conoscevo solo quel manesco di mio zio, vedevo lo
stato di semi schiavitù degli operai e manovali friulani e sognavo senza sogni,
senza saper sognare, senza sapere cosa sognare, sperando solo di crescere alla
svelta e di andarmene via lontano.
In quegli anni e a quel tempo, la gente era ancora
mentalmente in uno stato di semi schiavitù, valeva la parola del padrone e di
chi giornalmente girava in camicia bianca e cravatta.
In un Paese del Friuli la prima persona per ordine
d’importanza, era il Parroco, poi c’era il Sindaco e infine, il Maresciallo dei
Carabinieri. I padroni di piccoli negozi, imprese edili e gli artigiani,
quelli erano una casta a se, che cercavano accuratamente di non pestare i piedi
a nessuno dei tre, badando bene a farsi gli affari propri.
La cosa che mi era sempre sembrata strana, era la
posizione sociale dei contadini.
Non importava quanti campi uno possedeva, quante
mucche uno aveva nella stalla o quanti vigenti possedeva, a quel tempo un
contadino, era sempre considerato quasi un inferiore e nella mente di molti,
essere tale, era sinonimo d’ignoranza e rozzezza.
Il lavoro nei campi era arduo e in prevalenza
manuale.
Nelle grandi famiglie che, tra figli con le
rispettive mogli e prole arrivavano facilmente a una ventina di persone e in
certi casi sfioravano anche la trentina, regnava il patriarcato nei campi e, il
matriarcato in casa.
A quel tempo le grandi famiglie usavano denominare
i loro figli secondo i numeri progressivi, conobbi un Primo, come anche un
Sesto di un Ottavo, ma conoscevo anche diversi Decimo.
Erano tutti grandi e infaticabili lavoratori e,
tutt’altro che servili o paurosi.
Anche mio nonno materno, Luigi era un contadino
tutt’altro che pauroso o servile.
Nonno Luigi era un Uomo tutto un pezzo, dritto di
schiena, rispettoso degli altri, ma non certo servile.
Lo chiamavano il Grigio per il suo modo di
vestirsi, sempre in grigio con giacca e pantaloni e gilè, immancabilmente
grigi.
Subito dopo la prima guerra mondiale, il nonno
come tanti altri, coltivava la terra dei discendenti del Doge Manin, di
Venezia.
La Villa dei Conti Manin a Passariano nel Comune
di Codroipo è il tipico esempio delle feudalità e del latifondismo veneziano in
Friuli.
Nell’ambito di pochi chilometri quadrati si
contano tre contee, con tanto di residenza feudale per gli aristocratici e
povere abitazioni per i contadini di allora.
L’unica fonte di riscaldamento invernale, oltre
alla cucina con immancabile focolaio friulano a fuoco aperto sotto una grande
cappa per il fumo, a quel tempo era la stalla delle mucche, dove le famiglie si
riunivano dopo cena durante le lunghe notti invernali. Gli uomini di casa
allora intrecciavano nuove gerle o riparavano quelle che avevano e le donne
lavoravano a maglia ruvidi e grezzi calzini o maglioni per i loro famigliari o
rammendavano indumenti.
Le giovani donne di casa ricamavano pudiche la
loro dote e più di un matrimonio, fu intrecciato proprio in quelle stalle
durante le fredde notti invernali.
L’antagonismo paesano era una ragione di Vita,
come lo era tra le varie famiglie di una contea, dove esistevano dei veri e
propri clan, ben coltivati e amministrai dai signori Conti che dalla rivalità
dei propri contadini, traevano vantaggio e potevano controllare meglio le
famiglie in concorrenza tra loro e ricavandone, il maggior profitto possibile.
Nonno Luigi fu il primo a ribellarsi al dispotismo
padronale dell’aristocrazia di allora.
I vecchi del paese raccontavano in quegli anni che
un giorno nonno Luigi ebbe un vivace battibecco con il Conte, i due non
trovarono un accordo, su come e con che cosa coltivare un determinato campo. Il
Conte voleva seminare una cosa mentre nonno Luigi considerava una altra, la cosa
migliore da fare.
A Passariano, i vecchi contadini raccontavano che
a un determinato momento, il Conte, dall’alto del suo cavallo ebbe la
malaugurata idea di dire a nonno Luigi che doveva assolutamente obbedire come
facevano tutti gli altri contadini.
Ricordando al nonno che lei era solo un contadino
e, non un Conte, quel malaugurato aristocratico, risveglio nel nonno l’orgoglio
dei friulani, che senza mezzi termini, mando l’arrogante rampollo all’inferno e
pochi giorni dopo lasciò la contea con la sua mucca che tirava il suo piccolo
carro agricolo con i suoi pochi attrezzi e pochi mobili che il nonno possedeva.
Su quel carro che in pratica segnò una prima ribellione al latifondismo e
padroneggio veneziano in Friuli, c’erano pure un paio di polli e conigli, due
pecore e un maiale.
Sul carro, assieme ai sacchi di patate e granturco
e alla farina per fare il pane, c’erano i suoi bambini e dietro il carro, la
nonna Anna che doveva badare che le pecore e capre legate dietro al carro non
si slegassero e scappassero via nei campi.
Non mi è difficile immaginare quel semplice
trasloco di allora, lungo la polverosa strada che porta da Passariano a
Codroipo.
Il nonno Luigi davanti che segnava il passo a
fianco della mucca; la nonna dietro il carro che badava alle pecore e alle
capre e teneva d’occhio le sue figlie sul carro sedute tra quelle poche cose
che possedevano.
In quell’anno nonno Luigi si prese come mezzadro
sei campi da coltivare, le sue capacità erano conosciute e pertanto, non gli fu
per niente difficile trovare altra terra da coltivare.
Chissà che pensieri passavano per la testa ai
nostri nonni in quei giorni, chissà se sognavano cose che non conoscevano, o se
semplicemente speravano in un futuro con meno stenti e mortificazioni.
Senza lavoro e nell’ozio, i nostri vecchi non
potevano certo stare, sarebbero morti d’inedia, si sarebbero appassiti come
piante nel deserto, sicuramente sognavano un futuro migliore, ma che tipo di
avvenire sognavano i nostri nonni se non campi e prati in fiore, coltivati a dovere
nella fertile terra friulana?
Che cosa può sognare chi non conosce che il lavoro
nei campi e si sente pago guardando il frutto del suo lavoro germogliare dalla
terra e lo accudisce mentre cresce e fiorisce e matura quasi dal nulla,
esplodendo in una miriade di piante e frutta e colori e profumi?
A cosa può aspirare un Uomo che ammusa la terra
dei suoi campi appena arati, che la respira, che s’inebria dell’odore che emana
un campo arato e concimato di fresco,
Un Uomo che vive la terra che coltiva come se ne
fosse parte integrale di se e che si porta a casa ben impresso nel cuore e
nella mente, il verde del granturco, l’odore del fieno e dell’erba appena
tagliata, a cosa pensa, cosa sogna se non la Vita!
A cosa aspira un Uomo che stanco dal lavoro dei
campi, si ritrova alla sera nella stalla a mungere la sua mucca e a pulire la
stalla a darle da bere e a riempire la mangiatoia con nuovo fieno se non alla
Pace e alla serenità d'animo?
Che cosa pensa un Uomo che si alza al levar del
sole, che munge la sua mucca e pulisce la stalla e poi con la sua falce sulla
spalla va nel campo a falciare il grano fino al calar del sole se non a
salutare il nuovo giorno e il sole nascente?
Sicuramente la vista delle piante dell’uva, colme
di grappoli bianche e neri, lo riempie di orgoglio e lo fa sentire vivo e forte
mentre I campi di granoturco ancora verde gli danno speranza, ma i campi di
grano e i prati di erba sana e florida che testimoniano del suo lavoro, cosa lo
inducono a pensare se non alla forza e magnificenza del Creato?
In momenti simili un Uomo teme sicuramente la
grandine e scruta con circospetto e sicuramente con apprensione le nuvole nere
durante i temporali estivi, in cerca di segni imminenti grandine.
Chissà se un Uomo simile pensa a Dio, in qui
momenti.
Forse e riconoscente per il buon raccolto e forse,
in tacito e tra le lacrime, dopo una grandinata che ha distrutto in pochi
minuti tutto il suo lavoro di un’intera stagione piuttosto che un pensiero di
ringraziamento manda rabbioso, quattro madonne al cielo.
Chissà, se invece se ne sta solo li, mesto e
disorientato e in piedi accanto a sua moglie, troppo stanca, delusa e avvilita
e, assieme a lei, guarda esterrefatto nel vuoto, incapace di pensare?
Sicuramente nonna Anna quel pomeriggio d’estate
dove un temporale con una grandinata che non dimenticherò mai, distrusse quasi
tutto il raccolto dell’uva del suo vicino e una piccola parte del suo, nonno
Luigi non se la sentiva di certo di ringraziare o di mandare pensieri di
riconoscenza al Padreterno.
Stava lì quel pomeriggio dopo il temporale, in
piedi accanto a sua moglie in mezzo ai suoi campi guardandosi in giro e lo
sentii mormorare un'unica frase: Questo non è giusto, mi sento umiliato e
offeso.
»Questa sera reciterò un rosario,« mormoro
sommessa nonna Anna.
»Tira giù quattro madonne che è meglio,« bofonchiò
nonno Luigi piuttosto amareggiato vedendo che il suo vicino dall’altra parte
del canale d’irrigazione, piangeva
sommesso e scoraggiato, appoggiato ad un albero di gelso.
Quando lavoravano nei campi, li sentivo spesso
parlare insieme.
I loro erano discorsi mesti, tranquilli, di poche
parole.
Parlavano del loro passato, della loro età, della
loro stanchezza e del lavoro che diventava sempre più pesante e arduo da
compiere.
La nonna non diceva mai tante cose, annuiva quando
era d’accordo, ma sapeva anche puntare i piedi e far valere le sue ragioni.
Nonna Anna, come d’uso nelle vecchie Famiglie
friulane rispettosamente dava a suo marito del lei, ma con altrettanto
rispetto, quando qualche cosa non le andava a genio, dandogli sempre del lei,
lo mandava a quel paese.
Quell’Autunno da qualche parte alla fine degli
Anni quaranta quando ormai nonno Luigi aveva settant’anni suonati e nonna Anna
lo seguiva a ruota, i due decisero di smettere di lavorare la terra.
La loro salute era ferrea, ma la forza era venuta
meno i loro figli e figlie avevano preso strade diverse che quella dei campi e
del lavoro agricolo e da soli non ce la facevano più.
Nonno Luigi si spense all’improvviso una mattina
d’Autunno qualche Anno dopo.
La zia che lo accudiva, mi disse che se ne andò
così, stando seduto, subito dopo aver fatto la sua colazione mattutina che
consisteva in tre bicchieri di grappa e una tazza di Caffè.
Rimase lì, seduto sulla sedia, dritto di schiena
come sempre, con il suo ultimo bicchierino di grappa appena svuoto in mano.
La zia mi disse che lo vide posare il bicchierino
sul tavolo e lo senti bisbigliare un, »Mandi« sereno e pacato e poi i suoi
occhi su questa Terra, si chiusero per sempre.
Il medico chiamato d’urgenza, disse che nonno
Luigi si era fermato, come fa un motore, quando ha finito la benzina.
Pochi giorni prima, mi aveva chiesto di
accompagnarlo nei campi. Assieme, camminando piano avevamo rifatto a piedi la
strada che facevamo quando d’estate andavo ad aiutarlo.
Il mio aiuto allora consisteva ne tirare il
corretto a due ruote, dove lui e la nonna caricavano la legna da bruciare nel
focolaio della cucina e quel poco di erba che serviva per i loro conigli e gli
zucchini e cetrioli che crescevano tra i solchi del granoturco.
La sua ultima mucca era stata venduta già da
qualche tempo e il fienile e la stalla erano vuoti, avevano solo i polli e i
conigli.
La nonna se ne era andata pochi mesi prima mentre
era da una delle sue figlie lontano dal paese. Nessuno dei suoi figli glielo
aveva mai detto, temevano per lui, sapevano che non avrebbe sopportato l’idea,
o almeno le sue figlie e figli, credevano di saperlo.
Quel pomeriggio, quando andammo nei campi, tutta
la compagna attorno a noi era in fiore, ma un’ombra di nostalgia, passò sul suo
volto quando arrivando a quella che una volta erano i suoi campi dai quali
aveva estratto il suo sostentamento, si accorse che erano stai trasformati in
un unico grande prato.
I proprietari avevano sradicato anche le due file
di gelsi che nonno Luigi aveva piantato nel 1943, quando la Guerra lasciò il
Friuli e si era spostata minacciosa e implacabile verso Nord.
Pensoso nonno Luigi si sedette sull’orlo del
canale d’irrigazione come faceva quando irrigava i campi e mi fece cenno di sedermi
accanto a lui.
Passo una mano sull’erba quasi accarezzandola, poi
si prese una zolla di terra e la annusò.
»Questo sarà un buon anno Franco, la terra
respira,« mi disse guardando lontano.
Nonno Luigi stava lì seduto in quel particolare
punto del canale da dove poteva controllare l’acqua per l’irrigazione e
guardava i campi che ormai nessuno lavorava più.
Nonno Luigi in quei momenti che ancor oggi mi
sembrano eterni stava guardando nel suo passato, di questo, ne sono sicuro.
C`era qualche cosa di mistico stampato sul suo
marcato volto che sembrava scolpito nel marmo e guardandolo io non osavo ne
muovermi ne parlare.
Sentivo che non potevo che non dovevo parlare,
pertanto me ne rimasi lì zitto e tranquillo e quasi timoroso di respirare.
Sentivo che in quel momento nonno Luigi stava
dicendo addio alla sua terra che con tanta dedizione e passione aveva per tanti
anni lavorato, così rimasi li seduto accanto lui, non dissi niente neanche
quando lui cerco la mia mano e la rinchiuse tra le sue.
»Non dirlo a tua madre sai, ma sappi che io so che
la nonna se n’è andata. Venne lei stessa una notte a dirmelo, mi disse anche di
salutari e dirti che tu non dovrai mai aver paura, ne di quello che farai ne di
dove andrai, la tua strada è segnata e non ti devi preoccupare.«
Rimanemmo seduti sull’orlo del canale
d’irrigazione ancora per un poco, finché tutto un tratto si scosse e lasciando
la mia mano che per tutti qui momenti, aveva tenuto nella sua, appoggiandosi
sulla mia spalla in silenzio si alzo.
Il Grigio come chiamavano nonno Luigi, incamminò
lento e maestoso verso casa ed io lo segui camminandogli accanto senza parlare.
Strada facendo volle entrare in un osteria, dove
altri suoi coetanei sedevano e mi disse di bere un mezzo bicchiere di Tocai
assieme a lui.
Bevvi il mio mezzo bicchiere di vino, lui mi
guardo bere e poi mi accompagno alla porta.
»Non avere mai paura di nulla Franco, non importa
dove tu vada o cosa farai, non avere mai paura, non ti succederà mai nulla.«
Quella furono le ultime parole che sentii dal nonno
Luigi, la sua ultima immagine nella mia mente e quella dell’Uomo che chiamavano
il Grigio e che era mio nonno, che fermo davanti alla porta dell’osteria con un
bicchiere di Tocai i mano, mi salutava.
Nonno Luigi si spense l’indomani mattina subito
dopo la colazione e dopo avere bevuto il suo ultimo grappino.
Nonno Luigi deve avermi trasmesso la sua tenacia,
la sua percezione del dovere, il suo senso di rispetto del prossimo, la sua
sobrietà e la sua indistruttibile fermezza di carattere e indomabile voglia di
libertà.
Soprattutto, colui che chiamavano il Grigio, deve
avermi trasmesso la sua insofferenza verso ogni sorta di soprusi e ingiustizie.
Nonno Luigi non sopportava i fanfaroni, i
venditori di vento gli ingannatori e ciarlatani vari; li considerava dei
parassiti e con il tempo, la vermiglia parassitaria paesana, aveva imparato a
stargli alla larga.
Nonno Luigi mi aveva sicuramente trasmesso la sua
avversione verso le arroganze e le angherie e la cattiveria d’animo. La sua
insofferenza verso chi crede di avere il monopolio sullo sfruttamento degli
altri era quasi proverbiale e gli spara cazzate, badavano bene a non pestargli
i piedi,
La mia intolleranza e antipatia contro chi crede
di poter decidere e pontificare e sottomettere e soggiogare a suo piacimento ed
esclusivamente per propri interessi il suo prossimo; non vengono che da lui e
da nessun altro.
La voglia di andare lontano, di girare e vedere il
mondo, di conoscere e apprendere tante nuove cose da altra Gente, di fare e
capire altri “fare”; tutto questo invece, lo devo avere ereditato dal mio nonno
paterno, Pasquale.
Forse, questa è la ragione che una forza
irresistibile, indomabile, quasi selvaggia, mi spinse sempre ad andare lontano.
A non fermarmi mai, anche quando credevo di
volerlo fare, di avere raggiunto il mio Godot.
Allora in quei momenti il mio Godot come un
giocattolo usato, non mi piaceva più e subito sentivo nostalgia di un altro
Godot, di un altro orizzonte da raggiungere, di un'altra montagna da scalere.
Ben sapendo che dietro l’onda ne avrei trovata
un'altra, che dietro l’orizzonte c’è n’era un altro e che dietro a ogni
montagna da scalare ne avrei trovata un'altra simile; sentivo che dovevo andare
e niente, manco le cose più care del momento, riuscivano a trattenermi, a
fermarmi, a indurmi a restare.
Forse, è proprio per questo, che divenni un Uomo
di Mare.
Al contrario di nonno Luigi, il classico tenace e
costante contadino friulano che tutta la sua lunga vita l’aveva vissuta in un
raggio di cinque chilometri; nonno Pasquale era sempre stato un’errante.
Nonno Pasquale, ormai aveva i suoi anni, ed era
diventato tranquillo, quasi casalingo.
L’anno della mia nascita, accanto alla porta di
casa aveva piantato una vite di uva fragola che due anni dopo, dava già i suoi
frutti, i suoi piccoli grappoli d’uva.
Nonno Pasquale trovava sempre il tempo di giocare
con me. Paziente, mi costruiva allora piccoli giocattoli di carta o di legno
che poi con orgoglio mostravo agli altri bambini del Primo Canale.
Spesso mi portava con sé nei campi, quando le
bacche dei gelsi erano mature o quando d’autunno lungo il torrente Corno,
raccoglieva la legna da bruciare nella grande stufa di mattoni, dove la nonna
Maria cucinava.
Un tempo faceva il commesso viaggiatore, aveva
passato un periodo in Francia e infine era diventato usciere nella Pretura del
Paese.
Mia madre e la nonna Maria raccontavano che quando
il nonno si alzava al mattino, era sempre di cattivo umore.
Con caparbio pragmatismo e perseveranza, ogni
mattina cercava qualche cosa che secondo lui non era al posto giusto, fosse
stato un granello di polvere sul tavolo della grande cucina, nonno Pasquale lo
avrebbe trovato.
Le sue paternali e ramanzine alle Donne di casa,
come lui definiva, la nonna Maria, le sue due nuore e sua figlia, erano allora
garantite.
Mia madre, una volta mi raccontò che pochi giorni
prima che anche lui si spegnesse, le “Donne di casa” decisero di metterlo
veramente alla prova.
Tutte assieme quel mattino misero a puntino la
cucina da farla sembrare nuova.
Nonno Pasquale scese le scale brontolando come
sempre, si presentò guardandosi guardingo la cucina tirata a lustro, mentre le
“Donne di casa” lo accoglievano con un raggiante sorriso di sfida.
Le “Donne di casa” sicure della loro vittoria sul
nonno, giacché quello, dopo un paio di silenziosi e circospetti giri per la
cucina, non aveva trovato niente da reclamare, cominciarono a rallegrarsi, a
congratularsi tra loro, sicure di averlo zittito.
Ja Scheiße, si vede che ancora non conoscevano
nonno Pasquale, che non trovando proprio niente su cui imperniare il suo
distruttivo sermone mattutino, aprì uno dei cassetti della credenza e ne
estrasse la scatola dove c’erano gli utensili per cucire.
Con voce angelica nonno Pasquale spiegò alle
esterrefatte ”Donne di casa” che era perfettamente inutile che loro pulissero
quasi in modo sterile la cucina.
Ricordo loro che tra non molto avrebbero
cominciato a preparare il pranzo e che pertanto non era il caso di esagerare
con le pulizie mattutine.
Spiegò loro che la pulizia era si necessaria, ma
la troppa pulizia era un indicatore di psicosi del pulito che, se portata
avanti, poteva anche rovinare la quiete famigliare.
Indicando poi la scatola con i bottoni, disse alle
stupefatte “Donne di casa”, che ultimamente aveva notato un indescrivibile disordine
tra i bottoni i rotoli di filo e gli aghi da cucire e così, quella mattina le
“Donne di casa” dovettero sorbirsi la sua solita ramanzina e lezione su come
tenere in ordine una scatola di utensili da cucire, i gomitoli di lana e i
ferri per lavorare a maglia.
Quando mia madre una sera d’estate, con i vicini,
seduti al fresco della sera davanti alla porta della nostra nuova casa,
racconto questo nostro aneddoto famigliare, le chiese come avesse reagito la
nonna Maria che in quanto a franchezza di parole non era certo di meno di suo
marito.
»Meglio di no,« mi ripose ridendo.
Anche se negli ultimi giorni della sua Vita, nonno
Pasquale si era trasformato in un proprio e vero tiranno, irascibile e
facilmente irritabile, quasi despotico, sono sicuro che sia andato, magari
brontolando, diritto in Paradiso.
Quel pomeriggio quando lo colse un ictus
cerebrale, che in poche ore lo finì, noi due eravamo soli in cucina: io facevo
i compiti di casa e lui stava seduto accanto alla stufa di mattoni vicino alla
finestra.
Frequentavo da pochi giorni la prima elementare e
mentre seduto al grande tavolo della cucina, con una matita imparavo a fare le
aste in un quaderno a quadretti, nonno Pasquale silenzioso mi osservava.
Lo sentii chiamare il mio nome e lo vidi cadere,
battere il capo sul pavimento e rimare li, immobile.
Spaventato, cominciai a gridare e a chiamare mia
madre.
Accorsero tutti e mentre lo sollevavano dal
pavimento e lo portavano in camera sua, e mentre mio padre inforcò la
bicicletta e corse a chiamare il vecchio dott. Guerra, il grande amico del
nonno e medico di famiglia, io comincia a capire che la Vita non era fatta solo
di fiabe e giochi.
Quel pomeriggio stetti solo a guardare, da quando
frequentavo le lezioni di Catechismo dal Parroco, sapevo che a un moribondo si
dà l’estrema unzione, così che, anche senza essere cosciente ed essere in grado
di confessarsi; può egualmente andare in Paradiso.
Senza chiedere il permesso a nessuno andai subito
nella vicina Canonica e dissi al Parroco di venire a dare l’estrema unzione al
nonno morente.
Il nonno Pasquale non era certo un uomo di Chiesa,
come anche nonno Luigi non lo era, la loro avversione per la Chiesa e i Preti,
non era mancanza di rispetto, bensì semplice rabbia.
Forse la loro rabbia era dovuta al disconforto di
non avere la possibilità di aver potuto far meglio e di non aver avuto nemmeno,
la possibilità di poterlo fare.
La Chiesa benediva e annunciava la Vita eterna e
predicava, invece che cacciare i farisei dal tempio. La pazienza e costanza dei
semplici di Spirito che oltre a quelle virtù, non possedevano altro che la
remissività dei poveri, non poteva che portare al diniego totale di chi, nel
nome di Dio, è solo in grado di scagliare anatemi e pontificare proibizioni,
promettendo la Vita eterna a chi stenta già vivere su questa Terra.
La loro avversione per la Chiesa e la rabbia verso
i preti venivano proprio da questo stato di cose e non di certo perché a loro
mancasse un certo qual senso di compassione, di umanità, o di carità cristiana.
Il Parroco corese subito al capezzale del nonno
che spirò pochi minuti dopo aver ricevuto l’estrema unzione senza riprendere
conoscenza, e forse è meglio così, infatti, sicuramente avrebbe manato via in
malo modo il nostro buon Parroco rifiutando ogni assistenza spirituale e
sarebbe finito diritto in Purgatorio.
Proprio per questo sono convinto che nonno
Pasquale è anche lui in Paradiso, non ha ripreso conoscenza e non ha visto il
prete.
L’inferno non esiste che su questa Terra e tutto
questo, per un solo, unico morso in una mela.
Il gioco con Lucifero è affascinante, perde
sempre, ma nonostante ciò, non ne vuole proprio saperne di smetterla di fare il
rompiballe, mah, che si arrangi …
Negli anni che vennero dopo, capii che per le
varie nomenklature, politiche o religiose che fossero, la Gente non era altro
che merce da sfruttare e da pagare poco.
Crebbi in un mondo padronale, dove esistevano solo
padroni e servi, c’era chi comandava e chi doveva obbedire, chi aveva
un’opinione e chi non era dato di averla.
Il Comunismo in Italia attecchì tra i poveri e gli
sventurati, in uno Stato con una Chiesa che predicava, benedicendo Urbi e Orbi,
solo di punizioni e di mortificazioni e di timore di Dio, come se il Padreterno
fosse una bestia feroce.
La Chiesa Cattolica non seppe insegnare ai suoi
Fedeli ad amare Dio, bensì a temerlo, quasi a odiarlo.
Con il tempo, gli uomini cominciarono a
distanziarsi, prima dalla Chiesa e poi da Dio e si volsero e cominciarono a
credere a coloro che, con Bandiere rosse al vento, promettevano il Paradiso in
terra.
La forza del Comunismo in Italia è l’avversione
totale della Gente verso una religione totalitaria, fatta solo di divieti e
ipocrisie.
Crebbi in un mondo simile e mentre i miei amici
andavano al fiume o al mare, io trasportavo senza paga, mattoni e calcestruzzo
ai muratori sei giorni la settimana, e mi ritenevo fortunato, quando non
prendevo qualche scappellotto.
Un giorno ne ebbi abbastanza, a diciotto anni,
dopo aver frequentato un corso duennale per meccanici aggiustatori, a casa feci
il diavolo a quattro e in sostanza costrinsi i miei a lasciarmi emigrare in
Germania.
Finalmente libero dei gioghi feudatari di una
Regione in perenne stato di schiavitù, andai in Germania come aiuto manovale di
Miniera.
Andai per mare quasi per curiosità, mi arruolai su
di un peschereccio d’altura di 800 tonnellate che pescava oltre il circolo
polare. Imparai a sgozzare arringhe e merluzzi, ma soprattutto, non appena vidi
una Sala Macchine, seppi subito che quella era la mia strada.
Quante arringhe o merluzzi immerso fino alle
ginocchia nel pesce sgozzai per potermi pagare la Scuola tecnico navale o
quanto sudore sparsi sui motori Diesel di allora, non lo so, certo è, a
ventotto Anni ero l’unico straniero Direttore di Macchina, in tutta la fottuta
Marina Mercantile Tedesca e indubbiamente, uno dei più giovani.
I miei amici e compagni di allora non esistono più
che nel profondo del mio passato, molti di loro son diventati Notai, Avvocati,
un mio caro amico di sempre è un Medico, molti sono emigrati e chissà dove
sono, altri non ci sono più, altri ancora si sono appassiti in paese.
A volte non so cosa pensare, non credo che
ritornerò nel paese degli asini, non solo in Paese, ma nemmeno in Italia, non
mi sentirei a mio agio, questa Italia mi è aliena.
L’Italia è una Nazione che distrugge, la sua gente
la rende schiava di un sistema malato e sbagliato, disumano e crudele, basato
sul fondamentalismo politico e religioso dei divieti, del "divide et impera" sulla corruzione politica e sul
nepotismo.
In Italia conta il chi conosci; il chi sei, ha più
valore di, cosa sai fare e così; mentre la nomenklatura italiana si mantiene
scegliendosi i suoi Bravi e soggiogando e umiliando i vari, Renzo e Lucia
Nazionali, impedendo loro in tutti i modi di prosperare e crescere, la Nazione
invecchia e muore.
Dove abito ora, qui a Bremen in Germnaia, davanti allla casa, c’è un albero
Aron canadese magnifico.
Lo piantammo un giorno del 1975 quando, tra un imbarco e l’altro, mi trovavo di passaggio alla Casa del Marinaio, siamo cresciuti
insieme, l’albero ed io, perché dovrei andarmene?
Fine.
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