domenica 21 maggio 2017

CODROIPO


La Città di Codroipo in Provincia di Udine, è detta anche il Paese degli asini per via del suo antico mercato del bestiame che da sempre, ogni Martedì mattina si svolgeva sotto i vecchi platani del foro Boario.

Ora il mercato del bestiame non c’è più ma il nome, almeno nei ricordi dei vecchi paesani è rimasto.

Il paese nacque da un vecchio accampamento dell’antica Roma posto al crocevia delle strade che da sud, venendo da Aquilea e dalla costa adriatica, portavano verso nord e quella che da ovest andava verso est e che, attraverso i Balcani, portava verso la Grecia e Costantinopoli. Da quell’accampamento nacque mio Paese natale.

Nell’antichità era chiamato Quadribium, poi, con il passar dei secoli, divenne Quadruvium. Appartenne all’Austria e infine divenne territorio italiano.

Un tempo, quando andavo a trovare i miei, era come se ritornassi al mio passato.

Con l’andare degli anni, però, mi accorgevo che il Paese mi diveniva sempre più alieno sino ad apparirmi pieno di gente strana e lugubre e come se fosse popolato soltanto da funesti alieni.

Il mio Paese era diventato da poco una Città e aveva acquisito un non so che di tenebroso, mi sembrava come una via di mezzo tra una tranquilla e cinica cittadina provincialotta, arrogante e rincretinita in se stessa e una cloaca di bifolchi con la mentalità da ladri di gusci d’uovo.

Il Paese era in mano ad una banda d’imbecilli avidi di soldi, falsi nel parlare e nel fare e di conseguenza, dall’antico paese di contadini ne era venuta fuori una cinica Città friulana provincialotta e ottusa, abitata da extraterrestri e non certo da codroipesi.

Anche la Chiesa parrocchiale non era più la semplice Chiesa Parrocchiale di una volta e pertanto, come si addice a ogni Città che si rispetti, era stata trasformata in un Duomo.

Il mio paese, dove i sapienti e caparbi contadini, i provetti artigiani dalle mani d’oro di un tempo non poi tanto remoto, erano le colonne portanti di una civiltà tranquilla e lavoratrice che vantava ben due millenni di storia e che nessuno al mondo era mai riuscito a scalfire, non esisteva più.

Nemmeno la Repubblica Veneziana, con i suoi Dogi, aveva potuto piegare la caparbia tenacia dei paesani né tanto meno gli austro-ungarici con la loro crudeltà erano riusciti a squilibrare le fondamenta di una comunità rimasta tranquilla e operosa nei secoli, sulla quale la Storia passava; senza poterne intaccarne o cambiarne la tenace tranquillità.

Bastarono invece un paio d'anni e alcuni bifolchi dalla parlantina facile per cancellare duemila anni di Storia.

Queste, già da diversi anni ormai, erano le mie amare impressioni quando, da qualche angolo di mondo, facevo una scappatina a casa a trovare i miei.

Ormai mio paese era il paese –che non–esisteva-più e mi piaceva sempre meno. 

L’altezzosa ignoranza della gente era quasi grottesca, rasentava ormai l’inverosimile e i novelli cittadini, mi sembravano diventare sempre più diffidenti e invidiosi, di tutto e di tutti.

I tempi della tranquilla convivenza erano ormai lontani, se non addirittura remoti, tanto che a volte notavo che anche tra amici e vecchi compagni di scuola era venuta a mancare la consueta sincerità. 

Se è vero, come dicono, che i tempi rimangono invariati nel tempo e che è solo la gente che cambia, allora quella del paese -che- non-esisteva-più, era sicuramente cambiata in modo innaturale e negativo.

La gente si era trasformata in una banda di diffidenti e miscredenti che nulla avevano a che vedere con  chi un tempo popolava un luogo sempre fiorente e tranquillo.

Sul paese ormai sparito si era stesa una cupa e spessa cupola di invidia e di mal celato rancore veramente singolare.

Mi bastava osservare la gente ai banchi delle trenta osterie, pizzerie e caffè bar che si potevano contare nel raggio di neanche un chilometro, per costatare il loro grado di sterilità mentale e capire quanto i paesani di un tempo erano diventati guardinghi, suscettibili e diffidenti del loro prossimo.

Di veramente genuino erano rimasti alcuni vecchi paesani, ovviamente tutti grandi amanti del buon vino della cucina locale, giurati e sinceri amici del Tocai e candidati a morte prematura a causa della cirrosi al fegato o della trombosi dovuta all’alto tasso di colesterolo o per arresto cardiaco dovuto all’alta pressione.

Queste piccole malattie collaterali al buon vino e al saporito mangiare correvano rampanti su e giù per le strade della città, scegliendosi a casaccio il candidato di turno da carpire da spedire nel cimitero comunale, in Via delle Rimembranze, erano ormai diventate quasi un marchio di qualità.

I vecchi paesani ancora rimasti erano gli unici con cui andavo d’accordo: con loro si poteva parlare con tranquillità e si sentiva che era rimasta gente sana e sincera. 

Puntualmente ci si trovava in Piazza verso le undici di mattina e, come ogni giorno di tante eternità prima, immancabilmente ci ripromettevamo di farci solo uno o due bicchieri di vino per poi andare puntualmente a casa all’ora di pranzo che, da che mondo è Mondo, scocca inesorabile a mezzogiorno al primo tocco della campana dell’Angelus.

Il problema, però, consisteva nel fatto che nei paraggi c’erano troppe osterie e tutte vantavano buoni vini e spuntini e noi, uomini semplici ma perspicaci, sapevamo senz’altro onorare senza schernirci quel poco che ancora c’era di buono e genuino intorno a noi.

Puntualmente, come ogni giorno verso le due del pomeriggio, come d’incanto il nostro giretto mattutino terminava e noi, che avevamo come sempre saltato il pranzo, ce ne andavamo a casa a sorbirci rassegnati e mogi le consuete ramanzine delle rispettive mogli o madri che non volevano in nessun modo capire che erano proprio queste nostre comunioni mattutine che ancora tenevano acceso un barlume di ricordo del paese scomparso.

I loro predicozzi, veri e propri monologhi commisurati e perfettamente dosati nelle parole e nel tono, potevano durare anche una buona mezz’ora ma non riuscivano di certo a distruggere in noi il desiderio di mantenere in vita la fiammella che ricordava il paese scomparso. 

Pertanto, sempre sperando che qualcuno più giovane si unisse a noi, pronti a continuare la tradizione paesana una volta che ce ne fossimo andati per sempre, l’indomani mattina ricominciavamo puntuali il solito rituale mattutino.

I bigotti cittadini, invece, si tenevano lontani da noi.

Ai loro occhi, noi eravamo ormai diventati dei paria e quei poverelli non ci degnavano di uno sguardo che non fosse di commiserazione.

 L’ottusa alterigia tipica dei farisei, proibiva loro di dialogare con noi, per loro, noi uomini semplici, schietti e genuini, qualità ormai sconosciute in una Città di bifolchi con la cravatta, eravamo solo degli zoticoni, ubriachi tutto il giorno e pertanto, indegni della loro considerazione e non più frequentabili.

Il giorno migliore della settimana per me era il Martedì: sin dalla mia infanzia quello era il giorno in cui in paese c’era il mercato settimanale all’aperto.

Solo di Martedì, già da diversi anni ormai, riappariva finalmente il paese che tanto mi mancava, quand’ero bambino c’era pure il mercato del bestiame ben conosciuto non solo in tutto il Friuli, ma anche nel Veneto e proprio per questo, i vecchi di allora scherzosamente; lo chiamavano il paese degli asini.

Ogni Martedì dai paesini vicini venivano i contadini per vendere la loro verdura, i polli e le uova di galline ruspanti, con il ricavato le donne di casa compravano stoffe per cucirsi i vestiti e tutto ciò che serviva loro in casa e che la terra non dava.

Come d’incanto ogni martedì mattina, come in una sagra paesana; tutti si conoscono, i paesani si salutano strada facendo, s’intrattengono un momento accanto ad una o l’altra bancarella a scambiare quattro parole e finalmente si parlano.

Ogni martedì, dalla Stazione Centrale all’Asilo Infantile, il paese risorto si trasforma in un lungo Supermercato, dove c’è tutto e di tutto: dalla bancarella con pesce “fresco” proveniente dall’Islanda a pochi passi dalla Stazione, a quella del formaggio nostrano e olandese, non lontano dall’Asilo.

È tra queste due bancarelle che, per circa un chilometro, si snoda il resto del mercato del paese finalmente risorto.

Verso Mezzogiorno poi, quando il mercato pian piano volge al termine, in molti si ritrovano a mangiare nelle osterie e nelle locande attorno alla piazza dove si serve la buona e genuina cucina friulana: pane ancora caldo e fresco di forno da mangiare con il bollito o inzuppare nel brodo allungato con un mezzo bicchiere di vino e un cucchiaio di formaggio grattugiato, oppure l’immancabile baccalà con l’indispensabile polenta.

Questi sono i semplici e prelibati piatti casalinghi della patria della cirrosi al fegato e del colesterolo alle stelle e apprezzati e ben ricordati da tutti i friulani nel Mondo.

L’ora fatidica per il paese suona alle quattordici di ogni Martedì quando il Mercato finisce e gli spazzini comunali iniziano a pulire le strade.

Ogni volta che vedevo gli spazzini comunali all’opera, mi chiedevo sempre chi conduceva e reggeva chi. In tutti gli anni non sono mai riuscito a capire se era lo spazzino che reggeva la scopa e puliva la strada, oppure era la scopa stessa che miracolosamente reggeva lo spazzino e, contemporaneamente, con ogni spazzata che dava, puliva la strada cancellando in questo modo, il Paese che di nuovo spariva e con lui le sue tradizioni, il suo folclore, la sua sincerità.

Più tardi, quando le strade e la Piazza erano di nuovo pulite, tutto ritornava come prima, con la stessa apatia, la medesima intolleranza e arroganza di sempre e la gente riprendeva pian piano a morire un'altra volta.

Solo noi, gli intrepidi eroi della Banda paesana del Tocai o del Merlot meridiano, con piccoli semplici contorni di fettine di salame e formaggio nostrano o, al massimo, con un poco di Grana Padano e pane fresco, oppure con dei semplici piccoli triangoli di mortadella alti appena due dita intinta in una semplice salsa al pomodoro ci sentivamo ancora vivi e consapevoli di esser circondati da un’orda nefasta di Zombi da dimenticare. 

Zoticoni a questo mondo ce ne sono tanti, di tutte le fattispecie e di tutti i colori, sia da questa e sia dall’altra parte dell’oceano, in Germania come in Italia. 

Anche a Brema in Germania dove abito, se ne trovano diversi, di conseguenza non c’è da meravigliarsi se codesti prototipi di homo sapiens si trovano pure nel mio paese natale, posto nel bel mezzo del Friuli e, in definitiva, scomparso perché da poco elevato a città.

Il Paese che non esiste e che non ha nemmeno più la Chiesa Parrocchiale, giacché anche quella come in ogni Città che si rispetti è stata elevata agli altari delle Cattedrali denominate Duomo, come amaramente dovetti un giorno costatare, era pieno zeppo di zoticoni, anzi, era infestato da zoticoni, era inquinato da zoticoni e un po’ tutti ma, in special modo uno di loro, l’aveva su con me.

Quello, fra i suoi vaneggi dovuti molto probabilmente a un colpo di sole o a un coppo piovutogli in testa chissà dove, un giorno si convinse che ogni Città che si rispetti doveva avere il suo bel monumento.

E' risaputo che un monumento avrebbe dovuto mostrare qualcuno o qualche cosa di saliente e d’importante nella cronaca cittadina.

 Il guaio era che né il paese scomparso, né tanto meno la Città, apparsa dopo al suo posto, vantavano eroi o fatti di cronaca salienti, che ne so, del calibro della presa della Bastiglia in Francia ad esempio, anche perché a ben vedere, di Bastiglia da prendere non c'è n’erano mai state a Quadruvium.

C’erano è vero, una casermetta e una caserma vuota, ma quelle, da tanto decrepite che erano, non le voleva assaltare nessuno.

Gli unici eroi, sia del paese scomparso prima, sia della Città miracolosamente apparsa al suo posto dopo, erano quelli che facevano i salti mortali per arrivare dignitosamente a fin di mese senza far debiti, e quelli se ne fregavano altamente di un monumento che li rappresentasse. 

A quelli non serviva un monumento, sarebbe invece servito piuttosto un lavoro che nessuno era in grado di o voleva o interessava procurare.

Figuriamoci poi se lo poteva fare un tizio lustro e ben pasciuto, affetto da doglie cerebrali in procinto di partorire l’idea di un Monumento Cittadino. 

Il guaio era che nemmeno poeti e grandi pensatori meritevoli di una Statua non c’era traccia nelle cronache paesane del passato e figuriamoci poi se, se ne potevano trovare in quelle più recenti.

 Niente, di personalità o fatti storici meritevoli di un monumento non se ne trovava nemmeno l’ombra e all’Asilo infantile un Monumento ai Caduti delle Guerre esisteva già.

C'era si nella cronaca paesana  un latifondista "benefattore" che si era arricchito con il lavoro e il sudore di chi, attraverso un sottile fetta di formaggio vedeva Venezia.

La nuova Città però, secondo il nostro arguto concittadino, aveva bisogno di un monumento e, dopo tanto penosi travagli mentali, dalle sue meningi provate, scaturì l’idea di dedicare il tanto agognato e sospirato monumento, all’Emigrante Friulano.

»Franco ti vogliono fare un Monumento.« Mi salutò quasi festosamente un bel mattino, il mio amico professore in pensione e pilastro portante della nostra Banda del Tocai Mattutino. 

Senza indugiare ad approfondire e spiegarsi meglio, mi pilotò nell’Osteria “Sot il Piul” dove gli altri nostri amici si stavano già allenando e riscaldavano diligenti il palato, con piccoli sorsi dello squisito nettare friulano che gli usurpatori ungheresi, come se quei disgraziati non avessero già derubato e profanato e scorrazzato abbastanza su e giù per Friuli, ci volevano rubare.

»Ho sentito che in Comune stanno discutendo sulla possibilità di erigere un bel monumento agli Emigranti, e di conseguenza, dato che anche tu sei un Emigrante, ti vogliono fare un monumento,« mi spiegò, davanti al banco dell’osteria, continuando il discorso iniziato poc’anzi per strada.

Prima assaporai un sorso del Tocai che 'oste mi mise davanti non appena raggiunsi il banco, poi mi accesi una sigaretta. »Credevo che voi altri aveste contato ormai tutti gli imbecilli del Paese, vedo che quello vi è scappato, come mai?« Chiesi rivolto al gruppo.

»Non cominciare come tuo solito a incolparci di questo e di quello, ormai siamo una Città e di imbecilli ce ne capitano addosso ogni giorno che passa e da tutte le parti, tanto che ormai cominciamo a perderne il conto. Quello là, ad ogni modo, lo abbiamo individuato e ti giuro che d’ora in poi lo terremo d’occhio.« Mi promise un altro mio compagno di classe mentre gli altri, con cipiglio e sguardo fermo e greve, annuivano solenni.

»Ne hanno già parlato in Giunta durante a loro ultima riunione,« ci informò il nostro amico oste da dietro il banco.

»Probabilmente non ne faranno niente e poi, ditemi, dove li andrebbero a trovare i soldi? Per quel che ne so io, il Comune è vicino all’insolvenza, è quasi in bancarotta o mi sbaglio?«

»Non esserne tanto sicuro Franco, da quella banda di imbecilli, ci si può aspettare di tutto, questo e ben altro e molto di più,« sentenzio il professore che al di fuori di Mark e Lenin e di un po’ di Mao e Fidel Casto; non si fidava che di noi.

Da quel fatidico giorno in poi la Città, nata come per incanto da un Paese scomparso, si divise in due.

Da una parte si allinearono tutti i cittadini pro monumento ed erano in molti, dall’altra, tutti i paesani con la testa sulle spalle che erano in pochi.

Fu così che la ridicola e penosa farsa sul pro o contro un monumento all’emigrante iniziò con interminabili discussioni e tra grandi scuotimenti di testa di chi, pur rimanendo neutrale e fuori dalle discussioni, si sentiva preso in giro e quelli erano gli Emigranti.

»Di te si va dicendo che sei un Agente della CIA, trasferito in Iugoslavia,« mi confidò un po’ più tardi uno più tardi dei miei amici.

»Io invece, dai soliti ben informati, ho sentito dire che Franco è un mercenario al soldo degli albanesi,« gli fece eco un altro.

»Buon per me che ancora non conoscete la Storia della Motonave El Castillo, quella che avrei dovuto riparare e allestire a Creta.« Pensai, sorridendo sornione.

»Tu Franco, da quando c’è la Guerra in Iugoslavia, nonostante tutte le dicerie sul tuo conto che circolano in Paese, prendi tranquillamente il treno per Udine e da lì, quello per Vienna, a Vienna poi, alla Stazione Centrale ti attende un Taxi che viene dalla Slovacchia e sparisci con lui nel traffico cittadino… capisci bene che questo non fa che alimentare la fantasia degli idioti! Non ti meravigliare se poi di te si dicono le cose più strambe e disparate, « mi spiegò il terzo della combriccola, mentre il nostro amico oste Mario Calligaris, ci metteva quattro nuovi bei bicchieri di Tocai nostrano davanti al banco.

»E il tuo bicchiere dov’è. «  Chiesi al nostro oste preferito, quando vidi che ne aveva versati solo quattro.

>la giornata è ancora lunga,< mi rispose Mario sorridendo.

Quel giorno il discorso del momu,mento lo lascianno perdere e pian piano terminammo la nostra scampagnata trale osterie del paese e ritormanno all''ovile casalingo.
                                   

Nei paesi friuloani la prima persona per ordine d’importanza era il Parroco, poi c’era il Sindaco e infine il Maresciallo dei Carabinieri.

I padroni di piccoli negozi, d’imprese edili e gli artigiani, erano una casta a se che cercava accuratamente di non pestare i piedi a nessuno dei tre, badando bene a farsi gli affari propri.

Ciò che mi era sempre sembrata inguista, era la posizione sociale dei contadini.

Non importava quanti campi uno possedeva, quante mucche uno aveva nella stalla o quanti vigenti possedeva, a quel tempo un contadino, era sempre considerato quasi un essere inferiore e nella mente di molti, questo era sinonimo d’ignoranza e grossolanità.

Il lavoro nei campi era arduo e in prevalenza manuale.

Nelle grandi famiglie che, tra figli con le rispettive mogli e prole arrivavano facilmente a una ventina di persone e in certi casi sfioravano anche la trentina, regnava il patriarcato nei campi e il matriarcato in casa.

A quel tempo le grandi famiglie usavano nominare i loro figli secondo i numeri progressivi, conobbi un Primo, come anche un Sesto e un Ottavo, ma conoscevo anche diversi Decimo; tutti grandi e infaticabili lavoratori e tutt’altro che servili o paurosi.

Anche mio nonno materno Luigi Miculan, era un contadino tutt’altro che pauroso o servile.

Nonno Luigi era un Uomo tutto un pezzo, dritto di schiena, rispettoso degli altri, ma non certo servile.

Lo chiamavano il grigio per il suo modo di vestirsi, sempre in grigio con giacca e pantaloni e gilè, immancabilmente grigi.

Subito dopo la prima guerra mondiale, il nonno come tanti altri, coltivava la terra dei discendenti del Doge Manin, di Venezia.

La Villa dei Conti Manin a Passariano nel Comune di Codroipo è il tipico esempio delle feudalità e del latifondismo veneziano in Friuli.

Nell’ambito di pochi chilometri quadrati nel Comune di Codroipo si contano tre contee, con tanto di residenza feudale per gli aristocratici e povere abitazioni per i contadini di allora.

L’unica fonte di riscaldamento invernale, oltre alla cucina con immancabile focolaio friulano a fuoco aperto sotto una grande cappa per il fumo, a quel tempo era la stalla delle mucche, dove le famiglie si riunivano dopo cena durante le lunghe notti invernali.

Durante le lunghe serate invernali, al caldo della stalla, gli uomini di casa allora intrecciavano nuove gerle o riparavano quelle che avevano e le donne lavoravano a maglia ruvidi e grezzi calzini o maglioni per i loro famigliari o rammendavano indumenti.

Le giovani donne di casa ricamavano pudiche la loro dote e più di un matrimonio, fu intrecciato proprio nelle stalle durante le lunghe e fredde notti invernali.

L’antagonismo paesano era una ragione di Vita, come lo era tra le varie famiglie di diverse contee, dove esistevano dei veri e propri clan, ben coltivati e amministrai dai Signori Conti che dalla rivalità dei propri contadini, traevano vantaggio e potevano controllare meglio le famiglie in concorrenza tra loro e ricavandone, il maggior profitto possibile.

Nonno Luigi fu il primo a ribellarsi al despotismo padronale dell’aristocrazia di allora.

I vecchi del paese raccontavano in quegli anni che un giorno nonno Luigi ebbe un vivace battibecco con il Conte, i due non trovarono un accordo su come e con che cosa seminare un determinato campo. Il Conte voleva seminare una cosa mentre nonno Luigi considerava una altra, la cosa migliore da fare.

A Passariano, i vecchi contadini raccontavano che a un determinato momento, il Conte, dall’alto del suo cavallo ebbe la malaugurata idea di dire a nonno Luigi che doveva assolutamente obbedire come facevano tutti gli altri contadini.

Ricordando al nonno che lei era solo un contadino e non un Conte, quel malaugurato aristocratico, risveglio nel nonno l’orgoglio dei friulani e così, senza mezzi termini, nonno Luigi mandò l’arrogante rampollo Manin all’inferno e pochi giorni dopo lasciò la contea con la sua mucca che tirava il suo piccolo carro agricolo con i suoi pochi attrezzi e pochi mobili che il nonno possedeva.

Su quel carro che in pratica segnò una prima ribellione al latifondismo e padroneggio veneziano in Friuli, c’erano pure un paio di polli e conigli, due pecore e un maiale.

Sul carro, assieme ai sacchi di patate e granturco e alla farina per fare il pane, c’erano i suoi bambini e dietro il carro, la nonna Anna che doveva badare che le pecore e capre legate dietro al carro non si slegassero e scappassero via nei campi.

Non mi è difficile immaginare quel semplice trasloco di allora, lungo la polverosa strada che porta da Passariano a Codroipo.

Il nonno Luigi davanti che segnava il passo a fianco della mucca; la nonna dietro il carro che badava alle pecore e alle capre e teneva d’occhio le sue figlie sul carro sedute tra quelle poche cose che possedevano.

In quell’anno nonno Luigi si prese come mezzadro sei campi da coltivare, le sue capacità erano conosciute e pertanto non gli fu per niente difficile trovare altra terra da coltivare.

Chissà che pensieri passavano per la testa ai nostri nonni in quei giorni, chissà se sognavano cose che non conoscevano, o se semplicemente speravano in un futuro con meno stenti e mortificazioni.

Senza lavoro e nell’ozio i nostri vecchi non potevano certo stare, sarebbero morti d’inedia, si sarebbero appassiti come piante nel deserto; sicuramente sognavano un futuro migliore, ma che tipo di avvenire sognavano i nostri nonni se non campi e prati in fiore, coltivati a dovere nella fertile terra friulana?

Che cosa può sognare chi non conosce che il lavoro nei campi e si sente pago guardando il frutto del suo lavoro germogliare dalla terra e lo accudisce mentre cresce e fiorisce e matura quasi dal nulla, esplodendo in una miriade di piante e frutta e colori e profumi?

A cosa può aspirare un Uomo che ammusa la terra dei suoi campi appena arati, che la respira, che s’inebria dell’odore che emana un campo arato e concimato di fresco,

Un Uomo che vive la terra che coltiva come se ne fosse parte integrale di se e che si porta a casa ben impresso nel cuore e nella mente, il verde del granturco, l’odore del fieno e dell’erba appena tagliata, a cosa pensa, che cosa sogna, se non alla Vita?

A cosa aspira un Uomo che stanco dal lavoro dei campi, si ritrova alla sera nella stalla a mungere la sua mucca e a pulire la stalla a darle da bere e a riempire la mangiatoia con nuovo fieno se non alla pace e alla serenità d'animo?

Che cosa pensa un Uomo che si alza al levar del sole, che munge la sua mucca e pulisce la stalla e ritorna nel campi a sgobbare fino al calar del sole se non a salutare il nuovo giorno e il sole nascente?

Sicuramente la vista delle piante dell’uva, colme di grappoli bianche e neri, lo riempie di orgoglio e lo fa sentire vivo e forte mentre I campi di granoturco ancora verde gli danno speranza, ma i campi di grano e i prati di erba sana e florida che testimoniano del suo lavoro, cosa lo inducono a pensare se non alla forza e magnificenza del Creato?

In momenti simili un Uomo teme sicuramente la grandine e scruta con circospetto e sicuramente con apprensione le nuvole nere durante i temporali estivi, in cerca di segni d’imminenti grandine.

Chissà se un Uomo simile pensa a Dio, in qui momenti.

Forse e riconoscente per il buon raccolto e forse, in tacito e tra le lagrime, dopo una grandinata che ha distrutto in pochi minuti tutto il suo lavoro di un’intera stagione; piuttosto che un pensiero di ringraziamento manda rabbioso, quattro madonne al cielo.

Chissà, se invece se ne sta solo li, mesto e disorientato e in piedi accanto a sua moglie, troppo stanca, delusa e avvilita e, assieme a lei, guarda esterrefatto nel vuoto, incapace di pensare?

Sicuramente nonno Luigi quel pomeriggio d’estate dove un temporale con una grandinata che non dimenticherò mai, distrusse quasi tutto il raccolto dell’uva del suo vicino e una piccola parte del suo, non se la sentiva di certo di ringraziare o di mandare pensieri di riconoscenza al Padreterno.

Quel pomeriggio dopo il temporale, stava lì, in piedi accanto a sua moglie in mezzo ai suoi campi guardandosi in giro e lo sentii mormorare un'unica frase: Questo non è giusto, mi sento umiliato e offeso.

»Questa sera reciterò un rosario,« mormoro sommessa nonna Anna.

»Tira giù quattro madonne che è meglio,« bofonchiò nonno Luigi piuttosto amareggiato vedendo che il suo vicino dall’altra parte del canale d’irrigazione, piangeva sommesso e scoraggiato, appoggiato a un gelso.

Quando lavoravano nei campi, li sentivo spesso parlare insieme.

I loro erano discorsi mesti, tranquilli, di poche parole.

Parlavano del loro passato, della loro età, della loro stanchezza e del lavoro che per loro diventava sempre più pesante e arduo.

La nonna non diceva mai tante cose, annuiva quando era d’accordo, ma sapeva anche puntare i piedi e far valere le sue ragioni.

Nonna Anna, come d’uso nelle vecchie Famiglie friulane rispettosamente dava del lei a suo marito, ma con altrettanto rispetto, quando qualche cosa non le andava a genio, dandogli sempre del lei, lo mandava a quel paese.

Quell’Autunno da qualche parte alla fine degli Anni quaranta quando ormai nonno Luigi aveva settant’anni suonati e nonna Anna lo seguiva a ruota, i due decisero di smettere di lavorare la terra.

La loro salute era ferrea, ma la forza era venuta meno, i loro figli e figlie avevano preso strade diverse che quella dei campi e del lavoro agricolo e da soli i due vecchietti non ce la facevano più. 

Nonno Luigi si spense all’improvviso una mattina d’Autunno qualche Anno dopo.

La zia che lo accudiva, mi disse che se ne andò così, stando seduto, subito dopo aver fatto la sua colazione mattutina che consisteva in tre bicchieri di grappa e una tazza di caffè.

Rimase lì, seduto sulla sedia, dritto di schiena come sempre, con il suo ultimo bicchierino di grappa appena svuoto in mano.

La zia mi disse che lo vide posare il bicchierino sul tavolo e lo senti bisbigliare un, »Mandi« sereno e pacato e poi i suoi occhi su questa Terra, si chiusero per sempre.

Il medico chiamato d’urgenza, disse che nonno Luigi si era fermato, come fa un motore, quando ha finito la benzina.

Pochi giorni prima, mi aveva chiesto di accompagnarlo nei campi. Assieme, camminando piano avevamo rifatto la strada che facevamo quando d’estate andavo ad aiutarlo.

Il mio aiuto allora consisteva ne tirare il corretto a due ruote, dove lui e la nonna caricavano la legna da bruciare nel focolaio della cucina e quel poco di erba che serviva per i loro conigli e gli zucchini e cetrioli che crescevano tra i solchi del granoturco.

La sua ultima mucca era stata venduta già da qualche tempo e il fienile e la stalla erano vuoti, avevano solo i polli e i conigli.

La nonna se ne era andata pochi mesi prima mentre era da una delle sue figlie lontano dal paese. Nessuno dei suoi figli glielo aveva mai detto, temevano per lui, sapevano che non avrebbe sopportato l’idea, o almeno le sue figlie e figli, credevano di saperlo. 

Quel pomeriggio, quando andammo nei campi, tutta la compagna attorno a noi era in fiore, ma un’ombra di nostalgia, passò sul suo volto quando arrivando a quelli che una volta erano i suoi campi dai quali aveva estratto il suo sostentamento e si accorse che erano stai trasformati in un unico grande prato.

I proprietari avevano sradicato anche le due file di gelsi che nonno Luigi aveva piantato nel 1943, quando la Guerra lasciò il Friuli e si era spostata minacciosa e implacabile verso Nord.

Pensoso nonno Luigi si sedette sull’orlo del canale d’irrigazione come faceva quando irrigava i campi e mi fece cenno di sedermi accanto a lui.

Passò una mano sull’erba quasi accarezzandola, poi si prese una zolla di terra e la annusò.

»Questo sarà un buon anno Franco, la terra respira,« mi disse guardando lontano.

Nonno Luigi stava lì seduto in quel particolare punto del canale da dove poteva controllare l’acqua per l’irrigazione e guardava i campi che ormai nessuno lavorava più.

Nonno Luigi in quei momenti che ancor oggi mi sembrano eterni stava guardando nel suo passato, di questo ne sono sicuro.

C`era qualche cosa di mistico stampato sul suo marcato volto che sembrava scolpito nel marmo e guardandolo io non osavo ne muovermi ne parlare.

Sentivo che non potevo che non dovevo parlare, pertanto me ne rimasi lì zitto e tranquillo e quasi timoroso di respirare.

Sentivo che in quel momento nonno Luigi stava dicendo addio alla sua terra che con tanta dedizione e passione aveva per tanti anni lavorato, così rimasi li, seduto accanto lui, non dissi niente neanche quando lui cerco la mia mano e la rinchiuse tra le sue.

Rimanemmo seduti sull’orlo del canale d’irrigazione ancora per un poco, finche tutto un tratto si scosse e lasciando la mia mano che per tutti qui momenti, aveva tenuto nella sua, appoggiandosi sulla mia spalla in silenzio si alzo.

Il Grigio come chiamavano nonno Luigi, s’incamminò lento e maestoso verso casa ed io lo segui camminandogli accanto senza parlare.

Strada facendo volle entrare in un’osteria, dove altri suoi coetanei sedevano e mi disse di bere un mezzo bicchiere di Tocai assieme a lui.

Bevvi il mio mezzo bicchiere di vino, lui mi guardo bere e poi mi accompagno alla porta.

»Non avere mai paura di nulla Franco, non importa dove tu vada o cosa farai, non avere mai paura, non ti succederà mai nulla.«

Quella furono le ultime parole che sentii dal nonno Luigi, la sua ultima immagine nella mia mente e quella dell’Uomo che chiamavano il Grigio e che era mio nonno, che fermo davanti alla porta dell’osteria con un bicchiere di Tocai i mano, mi salutava.

Nonno Luigi si spense pochi giorni dopo, subito dopo la colazione e dopo avere bevuto il suo ultimo grappino. 

Nonno Luigi deve avermi trasmesso la sua tenacia, la sua percezione del dovere, il suo senso di rispetto del prossimo, la sua sobrietà e la sua indistruttibile fermezza di carattere e indomabile voglia di libertà.

Soprattutto, chi chiamavano il Grigio, deve avermi trasmesso la sua insofferenza verso ogni sorta di soprusi e ingiustizie.

Nonno Luigi non sopportava i fanfaroni, i venditori di vento, gli ingannatori e ciarlatani vari; li considerava dei parassiti e con il tempo, la vermaglia parassitaria paesana, aveva imparato a stargli alla larga.

Nonno Luigi mi aveva sicuramente trasmesso la sua avversione verso le arroganze e le angherie e la cattiveria d’animo. La sua insofferenza verso chi crede di avere il monopolio sullo sfruttamento degli altri era quasi proverbiale e i falsi e ingannatori, badavano bene a non pestargli i piedi,

La mia intolleranza e antipatia contro chi crede di poter decidere e pontificare e sottomettere e soggiogare a suo piacimento ed esclusivamente per propri interessi il suo prossimo; non vengono che da lui e da nessun altro.

Io ero in realtà alquanto incuriosito da quello che mi avevano riferito e, quando tutti i commenti e le precisazione de caso si esaurirono, chiesi: »Chi vi ha raccontato la storia del Taxi, che, state pur sicuri, anche tra un paio di giorni verrà un'altra volta a prendermi alla Stazione Centrale di Vienna. « Chiesi nel mucchio.

»Uno del Paese ti ha visto a Vienna e, interessatissimo, ti ha seguito fuori dalla Stazione ti ha quindi visto salire su di un Taxi slovacco e partire, di più non ha saputo dire.«

A quel punto ero davvero incazzato e volevo saperne di più.

»Chi è quell’mbecille che mi conosce e che invece di salutarmi, mi segue di nascosto, ma si può sapere chi è quello stronzo? Si può essere più insulsi di così? Uno mi riconosce all’estero, e di conseguenza, mi segue di nascosto per vedere dove vado e, per di più, riferisce in Paese con fare cospirativo quello che faccio, facendomi apparire come se fossi delinquente, chi è quel pezzo di merda.« Chiesi di nuovo.

»Non lo conosci di sicuro, quello è nuovo in Paese e fa il rappresentante di alimentari italiani all’estero. Di lui si sa poco e niente… sembra che sia stato un Maresciallo di qualche cosa nella Bassa Friulana. Ora è in pensione e lavora per arrotondarla. Di più non sappiamo.« Mi informò l’oste.

»Sicuramente da pensionato statale quello lavora in nero e noi paghiamo le tasse anche per sanguisughe come lui.«,Sentenziò il professore che avrebbe volentieri mandato all’inferno tutto ciò che aveva a che fare e vedere con le Forze Armate e lo Stato.

»Va ben, che vada all’inferno! Se si fosse fatto riconoscere, avremmo potuto magari bere un caffè e se ci teneva tanto, gli avrei anche spiegato cosa facevo e dove andavo.« Replicai scuotendo il capo.

Così, quel mattino in poche parole spiegai ai miei amici, cosa facevo in Slovacchia nel Cantiere Navale della SLK e perché facevo venire a Vienna un Taxi dal Cantiere piuttosto che prendere il treno almeno fino a Bratislava.

I miei amici ascoltarono con attenzione quello che spiegavo ma, dall’espressione dei loro visi, capivo che stentavano a credermi.

Questo comunque non era un mio problema, mi doleva solo costatare che nemmeno loro, erano innocui e al male delle dicerie di contrada, lo stesso male che assale e infetta in modo più o meno grave e acuto le menti umane, limitandone le capacita analitiche e gli orizzonti.

Lo stesso scetticismo lo avevo già visto sui visi dei miei amici quando, anni prima, lavoravo nel Mare del Nord per una Società americana che gestiva dei rimorchiatori d’altura per il traino delle chiatte posa tubi sul fondo marino. La Società era adibita anche allo spostamento continuo delle ancore grazie alle quali le chiatte stesse si reggevano in posizione arrancandosi in avanti quando necessario.

In realtà i miei amici erano abituati non solo a far domande di assunzione e a farsi raccomandare in ogni campo anche dai preti ma anche a chiedere il permesso su carta bollata persino per andare al cesso. Pertanto non volevano proprio credere che all’estero fosse possibile essere assunti in base alle proprie capacità tecniche e non in seguito alle raccomandazioni altrui.

Quando poi vennero a sapere che con la stessa Società americana ero finito prima in Alaska e poi in seguito nel golfo del Messico, nel golfo persico e in Nigeria, le dicerie in Paese non sembrarono più placarsi.

Secondo il loro modo di vedere, dovevo essere per forza un Agente della CIA, e comunque dovevo per forza di cose essere invischiato in qualche cosa di poco chiaro. Altrimenti come avrei potuto girare così sovente da una parte all’altra del Pianeta come se si trattasse di andare a fare una passeggiata nell'orto e per di più,. lavorare in posizione di comando con degli americani, pure essendo un semplice emigrante; quando nel paese che non c’è più e nella città che lo ha sostituito, solo per entrare alla Saipem a pulire i cessi ci voleva come minimo uno straccio di Diploma di Perito industriale e forti raccomandazioni?

Siccome, quello che io dicevo era al di fuori delle loro esperienze; ne derivava che non poteva essere vero.

A complicare la faccenda e il mistero del Taxi slovacco alla Stazione Centrale di Vienna; qualche mese prima, a casa dei miei squillò il telefono, e con mia sorpresa mi trovai a parlare con il capo del personale del mio armatore in Germania.

Mettiti per favore in un Taxi, va al aeroporto di Venezia, dalla KLM , dove troverai un biglietto a tuo nome per Amsterdam e poi Miami in Florida, là abbiamo un Nave fermata dalla Guardia Costiera perché un paio di mesi fa non ci rendemmo conto che la Patente del Capo - macchina non è ancora stata ratificata dal Ministero dei Trasporti, al giovane manca ancora una settimana di Navigazione per finire l’anno. In sette giorni sei di nuovo a casa e vai diritto a Komarno,  in Slovacchia, dove già ti aspettano. Pensa un po’ quanto possono essere coglioni gli americani, sono tre mesi che il ragazzo fa la spola con la Nave tra Puerto Rico e Miami e quelli ora solo fan casino, quindi se domani la nave non parte, noi rischiamo di perdere il Contratto. Il tuo volo è a mezzogiorno, Franco, me lo fai questo piacere, sei l’unico libero in giro, ci vai? «

Certo che ci andai, eccome che ci andai, quella era un’emergenza, il mio unico problema era di trovare un Taxi che mi portasse subito all’Aeroporto di Venezia.

Difatti nella Città sorta da un Paese scomparso non esisteva nemmeno un servizio di Taxi vero e proprio, c’era una macchina sola che dalla Stazione portava eventuali viaggiatori, scesi dai Treni locali ai vari Paesetti del Comune, cercando di caricarne il più possibile, come in una specie di corriera, per poi seminarli alle loro varie destinazioni, ma non esisteva un servizio vero e proprio con più vetture pronte a partire a ogni istante e chiamata.

Di conseguenza quando telefonai al tassista, quello mi rispose che non aveva tempo.

Oltretutto a quell’ora poi di Treni interregionali da Udine a Venezia non ce n’erano, difatti come si può pretendere che alle nove del mattino ci siano treni che si fermano a Quadruvium, una Città nata da un Paese scomparso?

Nemmeno quella stronza viziata di mia cognata se la sentiva di portarmi in aeroporto, mica l’avrebbe fatto per niente quella dannata scema, viziata dai suoi, fino alla scempiaggine; trattandosi poi di un’urgenza di lavoro, l’avrei naturalmente pagata come un Taxi normale e si sarebbe fatta 150 mila Lire, ma, come giustamente si dice: Un Uomo si può scegliere gli amici e mai il fottuto parentame.

Per quel che mi riguarda a parte un paio di cugini lontani dal Friuli e sparsi in giro per l’Italia, tutti gli altri possono andare all’inferno quando e come preferiscono.

Ad ogni modo, per mia fortuna mi ricordai di un tizio che a volte faceva un poco da taxi, lo chiamai e quello, venne subito a casa a prendermi.

Una settimana dopo ero di nuovo in paese ma trascorsi due giorni, un bel mercoledì, partii in Treno alla volta delle mie due Navi che stavano nascendo nel Cantiere Navale della SLK a Komarno.

Questa semplice realtà era troppo lineare e non piacque ai novelli cittadini, provincialotti e maldicenti
 »Non è possibile, quello ci prende tutti per fessi e per il culo, invece, vista la brutta piega che le cose stanno prendendo in Iugoslavia, di sicuro lo hanno richiamato alla Centrale per dargli nuove istruzioni, altro che Patenti Marittime non valide, cominciarono a mormore i soliti rincoglionuten di sempre.

Che diavolo avrei dovuto dire in simili frangenti?

Niente, e non dissi niente, se li avessi smentiti non ci avrebbero creduto, per cui me ne stetti zitto dilettandomi ad ascoltare ciò che la Gente andava spargendo alle mie spalle e che i miei amici poi, giulivi e contenti, prontamente mi riferivano.

Dovetti spiegare bene ai miei, per non farli stare in pensiero, cosa facevo, per questo feci loro anche vedere diverse foto chiaramente datate che mi riprendevano nel Cantiere e a bordo delle Navi in Costruzione.

La miglior farsa fu quella a cui assistetti di persona un paio di giorni dopo.

Quella mattina ero alla Stazione e stavo per prendere il treno per Udine e da li, avrei preso quello per Vienna.

Quel giorno la Stazione era sotto sorveglianza di una pattuglia dei Carabinieri in pieno assetto di Guerra, c’era persino un Maresciallo con tanto di elmetto in testa e un paio di subalterni armati fino ai denti che guardinghi e diffidenti come si adduce a ogni buon tutore dell’ordine; scrutavano i paesani seduti al Bar della Stazione.

Fu allora che sentii chiaramente uno dei carabinieri dire: »Eccolo lì che torna in Iugoslavia signor Maresciallo, perché non lo arresta? «

»Non esiste nessun mandato di cattura contro di lui, se ci fosse lo farei, così non posso far niente, « Rispose il signor Maresciallo con l’elmetto in testa earmato fino ai denti.

Ero assai divertito e passando accanto a loro con la mia borsa appesa a una spalla, li salutai sorridendo e mi preparai a salire sul treno, che stava arrivando.

Pochi minuti dopo, mentre il Paese scomparso sprofondava nel mio passato assieme alla città bigotta con tanto di Duomo, mi ritrovai con il pensiero di nuovo sulle mie Navi al Cantiere Navale della SLK a Komarno in Slovacchia, sulla Riva destra del Danubio e la Città bigotta e cinica, cessò, per un po’ di tempo almeno, di esistere

Un paio di mesi dopo ritornai per una settimana dai miei, gli amici della Banda del Tocai mi informarono che il Monumento all'Emigrante era stato eretto e, con tanto di benedizione; solennemente inaugurato.

Quei macachi lo avevano veramente fatto, anche se non così sontuoso come previsto.

Dunque, dissi divertito a me stesso, gli scemi del villaggio, i pro- "monumentari", erano ad ogni modo riusciti ad avere la meglio e a spuntarla contro quei pochi che avendo, a mio modo di vedere, ancora tutte le rotelle al posto giusto, erano stati sempre contrari ad una simile baggianata .

Il Progetto iniziale prevedeva di collocare davanti alla Stazione ferroviaria, una Statua di Bronzo raffigurante un Uomo, che aveva ai suoi piedi una semplice valigia e che con sguardo melanconico e greve, con un braccio alzato indicava la strada presa da migliaia di Emigranti, verso l'incognito dell’Europa settentrionale.

Dal racconto dei miei amici riuscivo perfettamente a visualizzare cos'era successo negli ultimi  mesi.

Come già sapevo, il Paese si era diviso in due, anzi in tre, i pro, i contro e i neutrali, l'ultimo gruppo era costituito dagli emigranti stessi; la spuntarono come è normale, quelli che costituivano il gruppo più folto e ben guarnito, appunto quello degli sciocchi e macachi del villaggio, mentre agli altri, com'è di consuetudine in ogni democrazia che si rispetti, sulla falsariga del detto latino che dice : Vox Populi, vox Dei; non rimase altro che accettare la volontà della maggioranza del Popolo, che ancora una volta , come purtroppo spesso accade, era costituita dagli sciocchi e macachi del villaggio

Costoro fecero sì il Monumento ma non lo piazzarono davanti alla Stazione Ferroviaria; difatti, all'ultimo momento quegli scemi si resero conto che se avessero sistemato il solenne ricordo agli Emigranti la dove inizialmente previsto, sarebbero andati persi, non solo diversi posti di parcheggio che sul piazzale della Stazione già scarseggiavano, ma sarebbero anche venuti a mancare gli spazi per diverse bancarelle durante il sacro mercato del Martedì.

Come se non bastasse, dopo tante discussioni, qualcuno si accorse che le Casse Comunali erano già da molto tempo quasi vuote e spiegò che praticamente il Comune non aveva neanche più un soldo, ma in compenso tanti debiti.

Le teste Comunali ripresero a fumare e incominciò la disperata ricerca di Fondi pro-Monumento, da evolvere alla salvezza dell’onore cittadino.

Alla fine della certosina ricerca gli archeologi delle palanche a forza di scavare tra i conti comunali racimolarono quel che bastò per acquistare un sasso di granito rosso alto appena un metro, che un Architetto triestino, con un paio di martellate accademiche elevò a scultura e in una solenne Cerimonia fu consacrato in onore agli Emigranti della Città e del Comune di Codroipo.

Alla solenne cerimonia inaugurale, che anziché davanti ala Stazione Ferroviaria ebbe luogo davanti alle vecchie scuole elementari dove fu collocato il sacro sasso, c'erano i bambini delle scuole con le loro maestre e i bambini dell'asilo, con le suore.

C'erano pure i sempre vigili e solerti Vigili Urbani i quali, come ci insegna il nostro Inno Nazionale, essendo creati schiavi di Roma, e discendenti dal Popolo dell'Urbe, per adeguarsi ai tempi, erano stati, dopo la scomparsa del Paese e la miracolosa comparsa della Città di Codroipo, ribattezzati in Polizia Urbana.

C'era pure il Monsignore che, contento di vedere tanti bravi fedeli cristiani, gaudente benediva sotto l'occhio soddisfatto e fiero del Sindaco che assisteva all'evento con tanto di sciarpa tricolore a tracolla.

La Banda comunale invece; non c'era.

Nix Banda comunale, una volta il Paese aveva la sua bella Banda e il figlio di Giovanni, il provetto fabbro dalle mani d'oro del paese, ne era il capace e bravo Maestro, ma dopo che gli strumenti furono venduti dal Comune o imprestati a un altro Comune confinante, o come male lingue insinuano, pignorati, da un altro Comune, la Banda comunale si sciolse per il semplice fatto che senza strumenti non si poteva suonare, e nessuno ne parlo più.

Sembra veramente che le spese sostenute per il Monumento prosciugarono completamente le Casse comunali e il Sindaco in cattedra, fece finalmente una cosa giusta, si ritirò!

Disperati, i membri della Giunta Comunale formata da tanti e mille Partiti e correnti interne ed esterne si riunirono d'emergenza e, per salvare le poltrone, cercarono tra le loro fila un pirla che fungesse, almeno per un poco ancora, da Sindaco.

Come cospiratori Guelfi e Gibellini quelle sere su e giù per le scale del Palazzo Comunale i consiglieri comunali formarono piccoli gruppetti che confabulando sotto voce, si guardavano tra loro storto e in cagnesco, ma il risultato fu che nessuno dei baldi rappresentati cittadini ebbe il coraggio o fu così fesso, da candidarsi per il posto di Sindaco.

Così, passati i termini previsti senza che la Giunta riuscisse a produrre un pirla che in quei frangenti se la sentisse di fungere da Sindaco, da Roma ladrona, venne un Commissario Amministratore d'Ufficio.

Ancor oggi nessuno è ancora riuscito a capire che cosa diavolo volesse o potesse amministrare l'Illustre Commissario Amministrativo d'Ufficio, fatto è che quello arrivò e pertanto c'era, e dato che c'era, si mise ad amministrare.

Manco a farlo apposta, da buon burocrate, partì subito con il piede sbagliato, e invece di far togliere il sacro sasso dello scandalo per venderlo al primo scalpellino in piazza onde poter cosi racimolare almeno quattro lirette per le ormai vuote Casse del Comune, quello cominciò a tagliare i contributi comunali all'annuale Festa del Patrono del Paese, che, come ci si può ben immaginare doveva essere piuttosto incavolato.

In tempi lontani al nostro Patrono San Simone, era stato affidato un piccolo Paese di contadini e piccoli artigiani, mentre ora, non solo si trovava a dove badare ad una Città piena di scemi del villaggio, ma come se ciò non bastasse, quale ringraziamento si vedeva anche tagliare i fondi per la Tenda della Birra durante la sua Festa annuale.

A ragion del vero però pian piano tutto sembra ritornare alla normalità e lo spauracchio di un'insolvenza perenne, da quando alla ribalta della Politica comunale si sono presentate le nuove generazioni, sembra definitivamente debellata.

Sembra anche che gli zombi del passato che rovinarono il Paese, corrotti e nepotisti, siano stati fatti correre via e che il tutto riprenda un andazzo più civile ed umano e dicono anche che diversi gruppi giovanili cercano di far rivivere le vecchie e sane tradizioni, folkloristiche del passato.

Time will tell!

Personalmente però con il mio Paese che rinasceva solo il Martedì per poi come una Fata Morgana scomparire poche ore dopo, avevo definitivamente chiuso.

I pochi giorni che passai ancora dai miei rimasi chiuso in casa e non andai più da nessuna parte.

Con la Banda del Tocai mi trovai solo una volta ancora, una Domenica mattina nella nostra osteria "Sot il Piul" dove bevemmo un paio di bicchieri di Tocai.

Di fatto ormai eravamo diventati troppo diversi, quello che ancora ci teneva uniti era il solo il ricordo del Paese scomparso insieme ai nostri ricordi d'infanzia e nient''altro.

Il Martedì successivo andai per l'ultima volta al Mercato.

In una delle Bancarelle acquistai delle bustine di sementi per ortaggi e fiori che avevo a suo tempo promesso alla cuoca del Ring Bar a Komarno dove spesso mangiavo alla sera quando ero troppo stanco per cucinare da solo e al Supermercato da Aldo il salumiere mi presi una Bottiglia di Grappa per il Caffè mattutino con Jan; il mio collegamento slovacco nel Cantiere Navale della SLK.

Quel giorno incontrai in Piazza anche due vecchi contadini del tempo andato che credevo già morti da diversi anni ormai, fu un onore per me invitare quei due vecchietti dal viso rugoso e sincero che sembrava scolpito nel marmo, a bere un bicchiere di Tocai, quando se ne andarono, li seguii per un lungo momento con lo sguardo.

Nel vederli, un po' curvi e stanchi andarsene pian piano verso casa, ebbi la netta sensazione che anche il mio Paese sparisse definitivamente con loro all'angolo della Piazza.

L'indomani mattina di buonora, ero alla Stazione Ferroviaria, mentre tra gli studenti che andavano a Udine; con la Bottiglia di Grappa per il Caffè mattutino con Jan, le sementa per la cuoca del Ring Bar, il salame e il formaggio, le calze di lana e il pullover pesante che mia madre mi aveva messo nella borsa; ci mancò poco che non scoppiassi ridere.

Difatti mi sentivo veramente come un vecchio emigrante che se ne andava via verso il freddo e oscuro Nord alla ricerca di un futuro migliore per sé e la propria Famiglia.

Sorrisi in silenzio e augurai a chi aveva rovinato il mio Paese tutto il bene del Mondo sotto forma di un cronico mal di Denti e una diarrea persistente, perenne e continua.

Poco più tardi, nello steso istante in qui il Treno si mise in movimento, fui catapultato nel mio futuro, a bordo delle due Navi in Costruzione a Komarno.

Il Paese che non esisteva più perché sulla carta era diventato una Città e che si vide anche la vecchia Chiesa Parrocchiale trasformata in un Duomo, sparì sempre più velocemente dietro di me e nel profondo del mio passato.

Ero finalmente riuscito a tagliare definitivamente il cordone ombelicale che mi teneva legato, quasi incatenato al passato; da quel momento il mio Quadruvium sarebbe vissuto solamente nei miei ricordi, dove non c'era posto per gli scemi del villaggio e pizzicagnoli o rivenditori di bottoni variopinti e nastri colorati vari.

FINE.


Nessun commento: